Adorno, il realismo reificante / denuncia e cecità
argormentativa consequenziale non rispecchiante, in tutte le “modernità”, le
quali hanno dato nome al corso degli
eventi, nella latitanza di un potere
pubblico, geograficamente generalizzato, mirato alla sussistenza dei suoi
equilibri, il perpetuarsi in quelle nuove radici
la serie di cicatrici, prodotte dalla pianta
madre, logorante per Habermas, ma già deformanti
per Adorno, la relazione sociale: un fotogramma per riallacciarmi al
precedente soliloquio.
Limite dei vari saperi? Snaturante procedura della forza
suadente della parola, legittimante l’onestà di Elena (Gorgia, Encomio di Elena), per
<l’universalità dei pensieri, come la sviluppa la logica discorsiva, il
dominio nella sfera del concetto, il
quale si erge sul fondamento del dominio sulla realtà> (Adorno, Metacritica)? Eppure, questa parola non la riscontriamo rinnovata nel
discorso fissato dalla scrittura, in
quanto, in quella operazione tecnica di linguaggio (il testo) <viene a inscriversi nelle lettere di ciò che vuol dire
il discorso> (Ricoeur. Che cosa è un testo?)? non è viva in un oggi, attestante la realizzabilità di una intercomunicazione di
base, grazie all’inventibilità dell’uomo
di una tecnologia mobile, mediante la quale il <parlare è un fare
esperienza di ciò che arriva alla parola attraverso la parola stessa>
(Habermas), nella confezione di statuto
di giudizio?
Una comparazione tra le tre argomentazioni, avendo in mente la trasformazione metodologica
nell’analisi del discorso, operata
dal positivismo logico: quella parola, logos della metafisica,
non assume nella trasformazione la medesima funzione preposizionale come garante della “correttezza” del discorso, qualunque sia il genere e il codice linguistico, in modo che esso venga considerato “realistico”
e non “poetico”, tale da essere accettabile o contestabile?
Non siamo in linea con la tradizione, in quanto forma grammaticale dell’asserto, e, come tale, non assume la funzione
pedagogica per possibili comportamenti del
nostro agire pensante?
Non vengono in tal modo a installarsi nel comportamento
di ogni individuo, a partire dalla più tenera età (ambiente, famiglia, scuola),
le “certezze”, le quali assumono il carattere di una propagazione epidemica,
grazie al rumore babelico dell’informazione e i suoi protocolli messi in atto
da una società grammaticalmente
acculturata? Una informazione, pertanto, che, al di là della diversità della
forma e della tematica, utilizza, nell’oggettivazione
argomentativa, una forma inclusiva/comunicativa,
quindi, retorica e apologetica, pur contestandola?
Non è, quindi, una rigenerazione
di uno scolpire in noi quella conformazione, non di pensiero, ma del pensare,
istruito attraverso una struttura
psichica indotta ad agire pensando <in certe prevedibili maniere>,
funzionali per il <mantenimento (o lo) sviluppo (di una determinata) forma
di organizzazione umana> (A.I. Hallowell, 1953, Culture, personality, and society)?
Mettere in luce tale distinzione / distogliere il nostro
riflettere sulle qualità, e quindi, sulle forme che il pensiero, storicamente (Ragione/Intelletto,
Ragione inclusiva/strumentale, Ragione soggettocentrica/comunicativa),
ha assunto attraverso formulazioni argomentative, elaborate dalle varie
egemonie culturali /e, in diversità non
antitetica, riflettere sul come
pensiamo, attirandoci tutta l’ira dei gestori e burocrati del sapere: è un
atto di arbitrio? O una trasgressione
socioculturale per un voler capire per capirci di quale carattere è
la istruzione del nostro agire pensante,
lasciandoci alle spalle la distinzione perniciosa
della costruzione culturale,
operata sia dal razionalismo sia
dall’empirismo, per trovarla poi
composita nella sintesi a priori di
un Io trascendentale o per ritrovarla
implicita nelle varie revisioni culturali del kantismo?
Pensiero non è l’intelligenza senza attributi
qualificativi che ogni singolo uomo
possiede sin dalla nascita?
Pensare non è un disegno architettonico,
in impronta genealogica, di una sua depurazione da ogni contaminazione da ogni
influsso immaginativo ed emozionale? Il conflitto
delle facoltà non è presente in Kant?
Non gli fornisce gli elementi per il suo superamento nella sintesi apriori? Non è questa operazione una oggettivazione di una soggettività, sia pure elaborata a condizione trascendentale?
Conformazione, quindi, adattabile in ogni clichè
filosofico, scientifico, politico, teologico e via di seguito sino ad arrivare
al comunicare di ogni uomo? Pertanto, abito
mentale del nostro comportamento?
Scrive Jay, e lo pongo all’attenzione per un riflettere
comparativo, in L’immaginazione
dialettica, <l’intellettuale è sempre impegnato in un’azione simbolica
che implica l’oggettivazione del suo pensiero in vari modi>. L’intellettuale? Perché, non il politico? L’uomo del quotidiano?
Un incalzante interrogativo
mi sprona a chiedermi: una riflessione sui saperi,
rilevarne o il loro regime
dispositivo attraverso il quale lascia circolare fra i suoi vari enunciati
effetti di potere ׀ domanda che avrei
voluto comporre a Foucault per il suo condivisibile propositivo, espresso in
Microfica del potere: <non si tratta di affrancare la verità da ogni
sistema di potere…ma di staccare il potere della verità dalle (varie)
egemonie> ׀ o i loro limiti, riconducibili ad una loro autocostruzione dei loro
piani d’intervento, differenziati nelle pratiche e nelle finalità, non si corre
il rischio di attualizzare una proprietà
che non posseggono, cioè l’essere?
Mia dissociazione psichica? Riflettendomi, si / effettuo l’ esperienza del mio
vivere nella franchezza della doppiezza del mio agire pensante: il testo
con le sue verità, sanzionante la
storia appassionante di una dimensione processuale che traluce le speculazioni,
i conflitti, lo scarto tra proposizioni immaginative e proposizioni che si
rispecchiano nell’ordine logico dei vari saperi, nella referenza dei loro
settori di appartenenza e sia nel
<vecchio mestiere> (Pavese) dell’affrontare il quotidiano e la cui <sventura ci fa perdere il tempo e il
mondo> (Blanchot).
Mio schema mentale assimilato
ed adattato nel travaglio situazionale tra il razionale e il normativo
/ mio? / sociale in reciproca
interattività di contagio a tal punto che, nel rispecchiarmi nell’altro straniero, avverto il suo richiamo
alla mia estraneità (Jabès)? /
responsabilità dei saperi? Si, ma nel loro effetto solvente, il quale
nel sociale viene considerato una sorta di termine
ad quem.
Ma, se liberiamo i sapere dall’interrogativo che cosa sono, il nervo metafisico della
domanda, e lo poniamo sui reali
protagonisti dei vari saperi, cioè filosofi, scienziati, politologi,
economisti, teologi e tutti quelli, per farla breve, che esprimono la cultura del momento, con i loro
interessi, le ambizioni, le pretese (Stengers) e soprattutto con schemi mentali assorbiti per scuola e adattati nell’input dell’insorgenza di emergenze sotto
il segno della sospensione, chi è il
responsabile?
Qui mi si aprono e si intrecciano una serie di
interrogativi che investono sia le diversità egemoniche configurativi del
nostro comportamento socioindividuale sia
il comportamento in quanto tale.
Interrogativi, per i quali il risveglio della nostra memoria storica si rende più che mai
indispensabile, ripeto, per un capire
intenzionato a un capirci.
Chiudo, per
riprenderli, distinti, nei prossimi soliloqui.
Franco Riccio
Un “commento” a “Soliloquio in esternazione” di Franco Riccio
RispondiEliminaLa nostra coscienza si arricchisce di trame esistenziali semplici e complesse: le nutre e le trasforma.
Che cosa dire a se stessi (ammesso che si possa parlare a se stessi)?
La riflessione è inutile quando l’evidenza appare chiara?
Compiere il più banale dei passi è già prendere una decisione: occorre, perciò, mantenere sempre alto il livello di vigilanza.
Siamo esposti ai fluidi ritmi di un esistere che ci appartiene in maniera intima ma che può apparire, talvolta, entità quasi estranea in continua metamorfosi (“Io è un altro”, disse Rimbaud).
L’attimo, ad esempio, non è momentaneo blocco del tempo, bensì sua elevata intensità: è, perciò, sorpresa e istantanea consapevolezza di chi lo vive intensamente fino al punto di trascurare il resto.
Certo, in simile frangente, la capacità di giudizio risulta meno ampia: ma, a ben vedere, meno ampia rispetto a che cosa?
In altri termini: che cosa significa essere liberi e, di conseguenza, aspirare a esserlo?
Quello della libertà è, forse, un traguardo fittizio?
Non si tratta di raggiungere una meta una volta per sempre, bensì d’impostare, quando le circostanze lo richiedono, feconde riflessioni ulteriori.
Marco Furia