Non siamo moderni, allacciatura
di una chiusa, vulnerabile per la sua semplificata considerazione / limite
della mia costruzione linguistica, la quale, per la trasparenza comunicativa di
tale valutazione, decisamente mette in gioco la complessità della riflessione.
Oggi viviamo, e ne siamo tutti consapevoli, una fase in percorso, per così
dire, a forcella, in cui il bivio è
incentrato al di là della nostra viabilità / ciò dovrebbe farci riflettere: allontanare il piagnucolio;
il pietismo mistico; capacitarci che la denuncia
è un venticello, un refolo, se non è sorretta da un interrogarci sul clima di incertezze che sta distruggendo in noi il senso di comunità, e soprattutto il senso dell’umano che è in ciascuno di noi / che la norma, se è indispensabile, non rimuove la causa della deviazione / che la ribellione vandalica non è insurrezione
popolare, ma una forma di
nichilismo auto-lesionista perché non intacca le radici di fondo della nostra reificazione così come le liste di impresentabili per le varie
candidature politiche o la delega alla magistratura.
Il problema è in ciascuno di noi, nessuno
è esente, io incluso / la
questione morale è una delle sue
espressioni, come la criminalità
organizzata e non, le
sperequazioni sociali a vari livelli, la violenza sui bambini e sulle donne, e
cosi via / lo abbiamo riversato nella costruzione del nostro rapporto di coabitazione in un pianeta, la terra, della
quale nessuno è il proprietario, ma lo abbiamo recintato, piantato le nostre bandiere,
costruito le nostre geografie sociali
– e queste hanno riversato su
ciascuno di noi le nostre modalità
operative, venendo così a istituirsi un circolo vizioso di reciproca
reversibilità di reazioni,
fertilizzando insieme grano e gramigna / un fertilizzare, se
risvegliamo in ciascuno di noi la memoria
della nostra storia - e su tale aspetto sarebbe imprescindibile una riflessione comparativa -, che
manifesta, proprio per l’incorporare in sé i due fenomeni incompatibili, uno stato inveterato che ha stabilizzato una
evoluzione tangibile su una situazione
relazionale gerarchica fra uomini uguali per nascita.
/ attenzione: non intendo riferirmi ad un rapporto fra dominatori e dominati: diafano di uno stato di guerra fra uomini / il mio
problema è sollevare l’attenzione sulle condizionali
ascendenti l’agire pensante di ogni uomo nella costruzione degli equilibri mobili delle varie stagioni di quella che abbiamo imparato a definire società: equilibri, i
quali, nel divario delle condizioni materiali di esistenza e nella relativa conflittualità delle forze
emergenti alla loro gestione, mantengono in vita la costante situazione relazionale gerarchica che designa il governante e
il governato, duplicando, di fatto, il rapporto mondano di vivibilità fra gli uomini in due aree: quelli
che sanno ed hanno il diritto al governo e quelli che non sanno ed hanno il dovere ad essere governati
– Platone redivivo secondo la moda stagionale.
Io so, tu no – Adorno, e l’immediato interrogativo che esso desta
risveglia in me il momento genealogico di un passaggio, al verificarsi di mutamenti radicali nelle già
determinate condizioni materiali dell’esistente in dissipazione strutturale, culturale da una esperienza mondana predeterminata in tutte le sue varianti a ad un avvio del farsi di una esperienza mondana, in grado di vitalizzarsi nell’oltrepassare
i propri limiti, attraverso una meccanica
rinnovabile, produttiva di un equilibrio
mobile tra le sue varianti.
/ il pre-figurato di un pensare
figurativo, il mito: l’insorgenza
della capacità immaginativa dell’uomo
nel suo agire pensante nel contesto
del suo circostanziato territorio / territorio, culturalmente plasmato dal
vigente orientamento sovrumano e in coabitazione comunicativa orale col suo prossimo / in tale
contestualità, focolaio pedagogico, il
ravvisare l’esperire l’esperienza della sua mondanità entro il limite
invalicabile della compiutezza: tutto è dato come doveva essere dato, in una
circolazione temporale di un perenne ritorno del medesimo
/ il figurabile in fieri di un pensare razionale, capacità cognitiva dell’agire pensante dell’uomo: genealogica radice a rizoma del <nucleo
logico> della nostra cultura / l’inattuale – cesura, provocata da una sincope
delle condizionali del territorio di provenienza / sincope, provocatoria di quello che Nancy definisce
<ondeggiamento incoativo>, il quale situa in congiuntura quell’unità del nome, configurativa della cultura territoriale, poiché ne
qualifica l’assetto relazionale, giunto alla sua saturazione / cesura, “materialismo” genealogico di
una prospettica configurazione di una attuale,
genesi concettuale di una configurazione relazione di una geografia sociale corrispondente alle
nuove emergenze, definendone gli strumenti atti alle loro qualità.
Squarci genealogici per un risveglio di memoria / capire fuori “testo”, nella consapevolezza dell’errore e nel tenere presente che il nostro angolo di rifrazione è fatturato da quella memoria: ciò per capirci
/ memoria, pedagogicamente attiva nella nostra dimenticanza: dispieghiamo un pensare,
nell’interazione con l’ambiente circostante, attraverso un esperire sempre
aperto a nuove possibilità: non testimoniamo un ritorno dell’identico / apertura oltre il limite, prerogativa del mito / apertura, congegnata, per scuola e per propagazione
epidemica, in una fisiologia del
pensare, tendente alla formalizzazione
ed alla oggettivazione dei pensieri soggettivi / fisiologia di un procedere predicativo, al di là delle forme
storiche del meccanismo formativo (da Aristotele, nelle differenze, al positivismo
logico), di sensi degli oggetti o
eventi esperiti, mutandone il loro
“destino” / procedura, la quale segna i confini tra la nostra capacità immaginativa e la nostra capacità cognitiva, angolandola in
propedeutica regolativa di un pensare
che configuri il suo “oggetto”
esperito secondo, appunto, l’istanza normativa delle sue regole formali, onde
renderlo “reale”, - verità pubblica.
non siamo moderni, ma attuali.
Attuali, auto-recintati nel dedalo dei
risultati, rizomanti una interazione
associativa tra operatori, normati da
quella che è la loro cultura e il contesto in cui essi vivono, strutturato
dalla stessa cultura: un medesimo tessuto culturale, pertanto, affastella produttori e prodotto in una reciproca reversibilità d’informazioni, configurativa del grado di equilibrio raggiunto, e,
nell’unità d’informazione acquisita,
la salvaguardia della conservazione della normativa
strutturale specifica e della sua trasmissione / riflettiamo, fuori letteratura: reticolo interattivo di una
esperienza mondana segna il realizzarsi genealogico
di una rete territoriale comune, in differenze
in costante mobilità, costituita, ripeto,
dall’interattività di protagonisti, normati
da una tipicizzata cultura, e, in quanto tale, formativa di uno schema di mentalità, tessuto del loro variabile agire pensante,
e il relativo prodotto, esigenza
configurativa della loro relazione di
coabilità, oggettivazione,
quindi, del loro schema di mentalità
– configurato, la cui tessitura, non
essendo il canovaccio né di Dio né della natura, ma dalla produzione logico-linguistica del loro schema mentale, viene a riflettere la
medesima cultura di base / da tale condizionabilità oggettivizzata, il tracciato di uno spazio inedito di un “reale”,
il quale ci torreggia e ci stimola con i ritmi dei suoi messaggi: –
interattività, la quale mette in moto il prolificarsi temporale di procedure in
temporanea modifica e alterazione, in rapporto al verificarsi di determinate
condizioni “materiali” di esistenza e al relativo gioco di cattura e di
gestione delle forze competitive emergenti.
Riflettiamo:
non è il figurato, e
purtroppo, il figurabile, di quella
che noi viviamo come società?
possiamo chiamarci moderni? non è più
realistico chiamarci gli attuali di una interazione variabile di una invarianza riproduttiva,
in quanto, cementata da una formazione
logica, non linguistica, sostegno grammaticale,
di un procedere catturante, prima, riduttiva all’unità del nome,
successivamente regolativa, in base all’unità del nome dell’incoativo dell’esperienza? qual’è il titolo che ci fregia moderni? il raggiunto progresso
scientifico, tecnologico, informatico, frontiera attuale di conoscenze
abissali? Ma, tale conquista, che ci apre nuove forme di adattamento, non è
attinta dagli innumerevoli tentativi, dalle rigorose selezioni che segnano il
faticoso cammino di costruzione dell’uomo della esperienza della sua mondanità?
dove si regge il titolo che ci qualifica moderni,
se in ogni stagione quella costruzione, in separazione dualistica,
che per necessità virtù, si
configura, nella differenza, gerarchica?
Qui, il mio interrogarmi in
esternazione, - spinoso e discutibile, esigenza a capirmi / come disgregare
quel reticolo che ci abbranca? Come sottrarci al pericolo del rinnovo,
all’interno delle nostre primavere,
dei redentori del destino della
moltitudine, ancorata allo stato di perenne
minorità? Come aspirare ad un rinnovamento climatico in un persistente habitat, rinnovante corruzione, criminalità
organizzata e non, e in un clima di
sospetto reciproco?
Scorro le pagine di Aurora / una
frase di Nietzsche mi strega / la propongo alla riflessione:
la realtà più vicina, quella che
è intorno e dentro di noi, comincia a poco a poco a mostrare colori e bellezze
e ricchezze di significato, cose, queste di cui l’umanità più antica non
sognava neppure
Franco Riccio
Genova, 27/7/2015
RispondiEliminaIl “Trentesimo soliloquio” del professor Franco Riccio mi ha indotto a riflettere sul rapporto intercorrente tra il concetto di verità e quello di significato.
Per chi credeva nel sistema tolemaico, il fatto che il Sole ruotasse attorno alla Terra era vero, per noi, no (quanto vale per il sistema tolemaico può essere riferito, ovviamente, anche ad altri modelli).
Gli uomini di allora, tuttavia, non erano poi tanto dissimili da noi, anzi, per certi aspetti (ad esempio, la fisiologia) erano identici.
La questione posta ne richiama un’altra: quella del rapporto tra credere e sapere.
Gli antichi, credendo che il Sole ruotasse attorno alla Terra, sbagliavano?
Ci si può ingannare nel credere ma non nel sapere?
E noi come possiamo essere del tutto certi di sapere?
I “tolemaici” vivevano la loro vita come noi viviamo la nostra e nessuno può a priori escludere che un nuovo modello di sistema solare (ora nemmeno immaginabile) sostituisca in futuro quello dei giorni nostri.
Senza cadere in atteggiamenti di sterile relativismo, occorre prendere atto di come le forme di vita possano, nel tempo, mutare.
Non si tratta, intendo dire, d’imporre assoluti princìpi posti al di fuori di ciò che siamo, ma di ammettere che il nostro modo di vedere il (di vivere nel) mondo è suscettibile di modifiche.
Siamo, insomma, sempre attuali e, nondimeno, esposti alle possibilità del futuro (quanto al passato, entra a far parte del presente come ricordo o come storia).
In simile àmbito, i concetti di verità e significato (e di sapere e credere), lungi dall’essere rigidamente separati, a tratti si compenetrano e si sovrappongono.
Nessun destino già scritto ci sovrasta e la contingenza è la naturale dimensione del nostro esistere?
Direi senz’altro di sì.
Marco Furia