domenica 12 luglio 2015

TRENTESIMO SOLILOQUIO

Non siamo moderni, allacciatura di una chiusa, vulnerabile per la sua semplificata considerazione / limite della mia costruzione linguistica, la quale, per la trasparenza comunicativa di tale valutazione, decisamente mette in gioco la complessità della riflessione.

Oggi viviamo, e ne siamo tutti consapevoli, una fase in percorso, per così dire, a forcella, in cui il bivio è incentrato al di là della nostra viabilità / ciò dovrebbe farci riflettere: allontanare il piagnucolio; il pietismo mistico; capacitarci che la denuncia è un venticello, un refolo, se non è sorretta da un interrogarci sul clima di incertezze che sta distruggendo in noi il senso di comunità, e soprattutto il senso dell’umano che è in ciascuno di noi / che la norma, se è indispensabile, non rimuove la causa della deviazione / che la ribellione vandalica non è insurrezione  popolare, ma una forma di nichilismo auto-lesionista perché non intacca le radici di fondo della nostra reificazione così come le liste di impresentabili per le varie candidature politiche o la delega alla magistratura.

Il problema è in ciascuno di noi, nessuno è esente, io incluso / la questione morale è una delle sue espressioni, come la criminalità organizzata e non, le sperequazioni sociali a vari livelli, la violenza sui bambini e sulle donne, e cosi via / lo abbiamo riversato nella costruzione del nostro rapporto di coabitazione in un pianeta, la terra, della quale nessuno è il proprietario, ma lo abbiamo recintato, piantato le nostre bandiere, costruito le nostre geografie sociali – e queste hanno riversato su ciascuno di noi le nostre modalità operative, venendo così a istituirsi un circolo vizioso di reciproca reversibilità di reazioni, fertilizzando insieme grano e gramigna / un fertilizzare, se risvegliamo in ciascuno di noi la memoria della nostra storia - e su tale aspetto sarebbe imprescindibile una riflessione comparativa -, che manifesta, proprio per l’incorporare in sé i due fenomeni incompatibili, uno stato inveterato che ha stabilizzato una evoluzione tangibile su una situazione relazionale gerarchica fra uomini uguali per nascita.

 / attenzione: non intendo riferirmi ad un rapporto fra dominatori e dominati: diafano di uno stato di guerra fra uomini / il mio problema è sollevare l’attenzione sulle condizionali ascendenti l’agire pensante di ogni uomo nella costruzione degli equilibri mobili delle varie stagioni di quella che abbiamo imparato a definire società: equilibri, i quali, nel divario delle condizioni materiali di esistenza e  nella relativa conflittualità delle forze emergenti alla loro gestione, mantengono in vita la costante situazione relazionale gerarchica che designa il governante e il governato, duplicando, di fatto, il rapporto mondano di vivibilità fra gli uomini in due aree: quelli che sanno ed hanno il diritto al governo e quelli che non sanno ed hanno il dovere ad essere governati – Platone redivivo secondo la moda stagionale.
  
Io so, tu no – Adorno, e l’immediato interrogativo che esso desta risveglia in me il momento genealogico di un passaggio, al verificarsi di mutamenti radicali nelle già determinate condizioni materiali dell’esistente in dissipazione strutturale, culturale da una esperienza mondana predeterminata in tutte le sue varianti a ad un avvio del farsi di una esperienza mondana, in grado di vitalizzarsi  nell’oltrepassare i propri limiti, attraverso una meccanica rinnovabile, produttiva di un equilibrio mobile tra le sue varianti.

/ il pre-figurato di un pensare figurativo, il mito: l’insorgenza della capacità immaginativa dell’uomo nel suo agire pensante nel contesto del suo circostanziato territorio / territorio, culturalmente plasmato dal vigente orientamento sovrumano e in coabitazione comunicativa orale col suo prossimo / in tale contestualità, focolaio pedagogico, il  ravvisare l’esperire l’esperienza della sua mondanità entro il limite invalicabile della compiutezza: tutto è dato come doveva essere dato, in una circolazione temporale di un perenne ritorno del medesimo

/ il figurabile in fieri  di un pensare razionale, capacità cognitiva dell’agire pensante dell’uomo: genealogica radice a rizoma del <nucleo logico> della nostra cultura / l’inattualecesura, provocata da una sincope delle condizionali del territorio di provenienza / sincope, provocatoria di quello che Nancy definisce <ondeggiamento incoativo>, il quale situa in congiuntura quell’unità del nome, configurativa della cultura territoriale, poiché ne qualifica l’assetto relazionale, giunto alla sua saturazione / cesura, “materialismo” genealogico di una prospettica configurazione di una attuale, genesi concettuale di una configurazione relazione di una geografia sociale corrispondente alle nuove emergenze, definendone gli strumenti atti alle loro qualità.

Squarci genealogici per un risveglio di memoria / capire fuori “testo”, nella consapevolezza dell’errore e nel tenere presente che il nostro angolo di rifrazione è fatturato da quella memoria: ciò per capirci / memoria, pedagogicamente attiva nella nostra dimenticanza: dispieghiamo un pensare, nell’interazione con l’ambiente circostante, attraverso un esperire sempre aperto a nuove possibilità: non testimoniamo un ritorno dell’identico / apertura oltre il limite, prerogativa del mito / apertura, congegnata, per scuola e per propagazione epidemica, in una fisiologia del pensare, tendente alla formalizzazione ed alla oggettivazione dei pensieri soggettivi / fisiologia di un procedere predicativo, al di là delle forme storiche del meccanismo formativo (da Aristotele, nelle differenze, al positivismo logico), di sensi degli oggetti o eventi esperiti, mutandone il loro “destino” / procedura, la quale segna i confini tra la nostra capacità immaginativa e la nostra capacità cognitiva, angolandola in propedeutica regolativa di un pensare che configuri il suo oggetto” esperito secondo, appunto, l’istanza normativa delle sue regole formali, onde renderlo “reale”, - verità pubblica.

non siamo moderni, ma attuali.  

Attuali, auto-recintati nel dedalo dei risultati, rizomanti una interazione associativa tra operatori, normati da quella che è la loro cultura e il contesto in cui essi vivono, strutturato dalla stessa cultura: un medesimo tessuto culturale, pertanto, affastella produttori e prodotto in una reciproca reversibilità d’informazioni, configurativa del grado di equilibrio raggiunto, e, nell’unità d’informazione acquisita, la salvaguardia della conservazione della normativa strutturale specifica  e della sua trasmissione / riflettiamo, fuori letteratura: reticolo interattivo di una esperienza mondana segna il realizzarsi genealogico di una rete territoriale comune, in differenze in costante mobilità, costituita, ripeto, dall’interattività di protagonisti, normati da una tipicizzata cultura, e, in quanto tale, formativa di uno schema di mentalità, tessuto del loro variabile agire pensante, e il relativo prodotto, esigenza configurativa della loro relazione di coabilità, oggettivazione, quindi, del loro schema di mentalità – configurato, la cui tessitura, non essendo il canovaccio né di Dio né della natura, ma dalla produzione logico-linguistica del loro schema mentale, viene a riflettere la medesima cultura di base / da tale condizionabilità oggettivizzata, il tracciato di uno spazio inedito di un reale”, il quale ci torreggia e ci stimola con i ritmi dei suoi messaggi: – interattività, la quale mette in moto il prolificarsi temporale di procedure in temporanea modifica e alterazione, in rapporto al verificarsi di determinate condizioni “materiali” di esistenza e al relativo gioco di cattura e di gestione delle forze competitive emergenti.

Riflettiamo:  non è il figurato, e purtroppo, il figurabile, di quella che noi viviamo come società? possiamo chiamarci moderni? non è più realistico chiamarci gli attuali di una interazione variabile di una invarianza riproduttiva, in quanto, cementata da una formazione logica, non linguistica,  sostegno grammaticale, di un procedere catturante, prima, riduttiva all’unità del nome, successivamente regolativa, in base all’unità del nome dell’incoativo dell’esperienza? qual’è il titolo che ci fregia moderni? il raggiunto progresso scientifico, tecnologico, informatico, frontiera attuale di conoscenze abissali? Ma, tale conquista, che ci apre nuove forme di adattamento, non è attinta dagli innumerevoli tentativi, dalle rigorose selezioni che segnano il faticoso cammino di costruzione dell’uomo della esperienza della sua mondanità? dove si regge il titolo che ci qualifica moderni, se in ogni stagione  quella costruzione, in separazione dualistica, che per necessità virtù, si configura, nella differenza, gerarchica?

Qui, il mio interrogarmi in esternazione, - spinoso e discutibile, esigenza a capirmi / come disgregare quel reticolo che ci abbranca? Come sottrarci al pericolo del rinnovo, all’interno delle nostre primavere, dei redentori del destino della moltitudine, ancorata allo stato di perenne minorità? Come aspirare ad un rinnovamento climatico in un persistente habitat, rinnovante corruzione, criminalità organizzata e non, e in un clima di sospetto reciproco?

Scorro le pagine di Aurora / una frase di Nietzsche mi strega / la propongo alla riflessione:


la realtà più vicina, quella che è intorno e dentro di noi, comincia a poco a poco a mostrare colori e bellezze e ricchezze di significato, cose, queste di cui l’umanità più antica non sognava neppure
Franco Riccio

1 commento:

  1. Genova, 27/7/2015

    Il “Trentesimo soliloquio” del professor Franco Riccio mi ha indotto a riflettere sul rapporto intercorrente tra il concetto di verità e quello di significato.
    Per chi credeva nel sistema tolemaico, il fatto che il Sole ruotasse attorno alla Terra era vero, per noi, no (quanto vale per il sistema tolemaico può essere riferito, ovviamente, anche ad altri modelli).
    Gli uomini di allora, tuttavia, non erano poi tanto dissimili da noi, anzi, per certi aspetti (ad esempio, la fisiologia) erano identici.
    La questione posta ne richiama un’altra: quella del rapporto tra credere e sapere.
    Gli antichi, credendo che il Sole ruotasse attorno alla Terra, sbagliavano?
    Ci si può ingannare nel credere ma non nel sapere?
    E noi come possiamo essere del tutto certi di sapere?
    I “tolemaici” vivevano la loro vita come noi viviamo la nostra e nessuno può a priori escludere che un nuovo modello di sistema solare (ora nemmeno immaginabile) sostituisca in futuro quello dei giorni nostri.
    Senza cadere in atteggiamenti di sterile relativismo, occorre prendere atto di come le forme di vita possano, nel tempo, mutare.
    Non si tratta, intendo dire, d’imporre assoluti princìpi posti al di fuori di ciò che siamo, ma di ammettere che il nostro modo di vedere il (di vivere nel) mondo è suscettibile di modifiche.
    Siamo, insomma, sempre attuali e, nondimeno, esposti alle possibilità del futuro (quanto al passato, entra a far parte del presente come ricordo o come storia).
    In simile àmbito, i concetti di verità e significato (e di sapere e credere), lungi dall’essere rigidamente separati, a tratti si compenetrano e si sovrappongono.
    Nessun destino già scritto ci sovrasta e la contingenza è la naturale dimensione del nostro esistere?
    Direi senz’altro di sì.

    Marco Furia

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