L’incentivo di Foucault del
già citato suo propositivo di <staccare il potere della
verità dalle forme (delle varie) egemonie> / il suo chiedersi
intorno alla possibilità di <costituire una nuova politica della
verità>, centrandone l’ostacolo da smussare, individuato, non
nella sua critica <ai contenuti ideologici, né nel <cambiare
la “coscienza” della gente>, ma <nel regime politico,
economico, istituzionale di produzione della verità>, nel
turbarmi, rivanga in me un’espressione di Rilke, da me letta in
“Anterem”.
Espone quel mio sentire
in trasparenza, tale da segnare in me la ristrettezza
terminologica: <Ciò che qui nomini, questo è il pericolo, tutta
la pura minaccia del mondo>.
Il regime di produzione della
verità: la pura minaccia della gente
senza firma – mi interrogo: non è capitale la
domanda sulla genealogia del ricorso ricorrente al suo sbandieramento
da parte di ogni forza che entra in scena e che di fatto ombra
la giovinezza, propria di ogni emergenza che si fa storia?
Genealogia, la quale, sollevandone all’attenzione, due prerogative,
messe in risalto da Foucault e su cui rifletterò in seguito,
provenienza e emergenza, il cui inviluppo, segnandone
la datità e il relativo fronteggiarsi delle forze in competizione,
rileva <il gioco casuale delle dominazioni>, non smentisce
l’accreditato segno “intemporale” della trasparenza di sé a
stessa di quel termine? Domanda eretica. Non rischia di insignificare
la comunicazione nitida contro l’opacità dell’errore che quel
vocabolo la tradizione ci ha trasmesso, enfatizzandolo? Verità
– non l’abbiamo ricevuta, e noi, in contagio, l’abbiamo
divulgata <centrata sulla forma del discorso scientifico e sulle
istituzioni che lo producono> (Foucault)? Oggi, nell’emersione
di <fattori gravitazionali>, come rileva Stengers (La
complessità, in Concetti nomadi), che possono essere o
insignificanti o cambiare tutto, messi in luce dalla ricerca
scientifica, per un verso, e dall’altro, provocati dal tessuto del
corpo sociale, non rende quella <memoria culturale> vacua?
Nell’assiomatica del linguaggio con cui oggi si mostra la
messa in scena del convincimento dei vari “specialisti” e
degli “apprendisti specialisti”, non reintroduce in noi il
pensare dell’egittologo del ritaglio, memoria culturale,
nostalgia dei Greci? In tale reintroduzione inconscia non
si rischia di far “tacere” la “cosa” che suscita il problema
e la relativa disputa?
Paradosso vertiginoso / una
parola ׀
mi ricorda Gorgia
׀
detentrice
dell’esperienza di un mondo, occultato dai suoi ondeggiamenti
incoativi, transitante, attraverso le sue sincope da una
civiltà della parola ad un civiltà della scrittura,
incamminandosi, oggi, verso una civiltà della tecnologia mobile.
Il momento che stiamo
attraversando, vivendolo nella difficoltà assordata dalla confusione
dei linguaggi, persino nel loro funzionamento logico e
nell’invenzione di una nuova terminologia, non richiede la
tempestività di un radicale interrogarci?
Non è questo il momento, per
proteggerci dal pericolo della confusione, di prendere sul serio
la confusione, strutturalmente omologata al linguaggio, e vederne le
cause profonde?
Non diventa urgente
l’interrogarci sulla progressiva canalizzazione di uno schema
mentale, condizionante il nostro agire pensante a tal
punto che, nell’osservare un fenomeno perturbante il nostro vivere
la quotidianità, rigenera in noi una concettualità radicata
<in una tradizione che ci ha dato accesso a un modello semplice, e
che ha definito degli strumenti convenienti ai sistemi di questa
natura> (Stengers, citata)?
Questo interrogarci non è
già un prendere le distanze da ogni egemonia?
Non ci mette in condizione di
produrre domande qualitativamente inedite?
Non dischiude la nostra
singolare convinzione all’indispensabile ascolto di
domande diverse?
Interrogando tali
interrogativi, non facilitiamo una situazione relazione di
ascolti che fa saltare la regola della soluzione data una volta per
tutte, aprendo nuovi aspetti di ristrutturazione della disfunzione
che pone il problema? Sollevarne in interrogativi,
svincolati da enfasi moralistiche e mistiche, i focolai che la
producono? Interrogativi dissimili in raffronto non competitivo ma
comparativo, in forza del quale il turismo che
fodera i dicibili dei rispettivi interlocutori, i quali, in realtà
intervengono attivamente nel significato di ciò che è l’oggetto
della disputa, ceda il posto all’osservazione pluriangolata del
“dato” in questione? Ciò, in quanto ogni dato dissestante
l’equilibrio della società non si dà in istanza unica per la
pressione, esercitata dall’intreccio delle sue variabili causali e
casuali? Non è in tale maglia il supporto in base al quale, si
costituisce in un insieme di soluzioni, il cui confronto supporta la
pratica del buon senso nella scelta operativa?
Condannati all’impotenza
per diritto costituzionale, dobbiamo restare in attesa dei
responsi che i grandi potenti del mondo in sinergia con i
grandi della finanza ׀
povera
democrazia! cosa è rimasto del sangue versato per te dai
partigiani della resistenza? ׀
ci propinino nuove
normative, le quali appaiano la superficie del fenomeno, ma
non ne incrinano la radice?
Norme vitali per noi, in
quanto regolativi del diritto al lavoro, allo studio, di
determinate pratiche comportamentali, legiferati sotto il controllo
della fiducia e senza mettere a fuoco, almeno in parallelo, il
tentativo esplorativo di una individuazione di un possibile
virus epidemico che abbia pregiudicato le pur splendide
transizioni della nostra civiltà?
Ciò che oggi si mostra gramigna
infestante, rendendo più complicata la nostra pratica quotidiana,
già complicata dalla crisi mondiale, non è un fenomeno dell’oggi
/ leggiamo la nostra storia, fuori i manuali, dell’ieri
spirato e dell’altro ieri ancora vivo, e riflettiamo
sull’oggi: non è mancata la normativa; si è istituito il
carcere duro; si è assistito allo svilimento della sovranità
popolare, base della nostra conquistata democrazia, nel nome
di un moralismo giuridico, nell’omertà dei politici e degli
stessi cultori del diritto costituzionale, per sanità pubblica:
il risultato: la fertilità di quella stessa gramigna, con l’aggravio
della conflittuali dei poteri, con i quali si identifica lo stato
di diritto; la nascita di corpuscoli “soggetti politici”,
sbandieranti moralità, valori, lavoro, parità dei sessi,
rivoluzione “civile”, igiene totale, sboccata da apprendisti
stregoni, navigatori in rete - tutti in alternativa di
governo del popolo, e nel nome verità - segno verbale
di una cultura dell’io so, tu no; popolo, sopraffatto
dalla miseria, disoccupazione, dalla difficoltà di vivere il
quotidiano / il tutto riprodotto in spettacoli televisivi in orrore
scenografico, orchestrato da saccenti conduttori.
Il mio interrogativo: la
patologia, presupposto indispensabile per la ricerca degli agenti
causali del persistere delle loro anomalie, nonostante le “cure”,
dove viene praticata? L’elemento che più mi colpisce è, e per me
è un attestato di cultura, che tali disfunzioni,
perturbatrici del nostro rapporto sociale, non siano innanzitutto
segnati dal marchio dell’esteriorità? Mi spiego: esteriorizzazione
dell’acerbità della disfunzione che, per taluni motiva lo stato
d’accusa della parte avversa, e per l’altra l’ostentata
esposizione del proponibile segno del suo affrancamento – e il
risolutivo? La solita storia.
Non è la loro recrudescenza che
dà il segnale della consistenza del problema oggettivo? Non è
tale evidenza provocatoria, appunto dell’intervento
legislativo? Non va approfondita prima di risolverla in uno stretto
determinismo psicologico, movente della conflittualità e del
conteggio dei voti? Oggetto della diatriba non è il problema in
quanto tale, ma ciò che si fa problema: la
causa determinante, nel caso specifico, delle nostre disfunzioni: le
anomalie, appunto, che mettono in gioco il nostro vivere quotidiano e
il rapporto comunitario. / e noi zittiti per legittimata lesione? /
ricorso in piazza con delega al sindacato, annebbiato dai
vecchi schemi? Ricorso alla piazza, per dimostrare il nostro dissenso
su questioni, intorno alle quali è palese l’assenza di un
confronto di base? Non parliamo di movimenti redentoristi in rete,
dove nuovo è lo strumento, vecchio il costume.
Rendo manifesto un mio
pessimismo / me ne dispiace / un pessimismo sofferto che non
si piega alla rassegnazione / il patirlo mi sprona ad agire,
mettendomi a rischio: l’idea del blog / avvalersi come
strumento operativo per uno spazio comunicativo aperto senza norme,
senza programmazione tematica, se non quella di
interrogarci, ognuno con le proprie convinzioni e con le
proprie esperienze sulla crisi della società in quanto crisi
della nostra cultura / interrogarci in una interazione
comparativa, non conflittuale, per una circolazione di un
ventaglio di pensieri differenti tra di loro come
testimonianza della pacifica convivenza delle varie differenze /
testimonianza,a sua volta, di un rispecchiamento della complessità
della nostra esperienza dalla quale sorgono altrettanto problemi
complessi, irriducibili al determinismo psicologico, anche del più
esperto.
Le mie idee, l’oscurità del
mio linguaggio, l’astrusità delle tematiche che sollevo non
sono un referente condizionante alla proposto di intesa.
Sono mie determinazioni
psicologiche / pensieri soggettivi, senza pretesa di una loro
oggettività / sono pensieri maturati, legittimati
soltanto dal mio diritto, come ogni uomo, anzi come l’ultimo
degli uomini, di manifestare le mie idee e di manifestarli, nel
rispetto dell’ascolto di chi pensa diversamente: io non
sono un Noi.
Un Noi, il quale, secondo
la mia convinzione, e che rimane tale, essendo una mia
determinazione psicologica, provocata dagli studi e dalla
pratica dell’impegno sociale, da rinvenire nella sua genesi,
non secondo il testo, ma esplorando gli avvenimenti
travagliati da conflitti, da instabilità di equilibri comunitari e
da novità emergenti dal talento di uomini che dalla curiosità,
stimolata dall’errore, hanno inaugurato nuovi
orizzonti.
Penso in me / ne esterno la
valutazione opinabile: non si rende necessario il ricorso ad una
diversa energia esplorativa, svincolata da quella referenza,
(verità) dettame dell’inclusione/esclusione, per una
configurazione di una prassi del cambiamento? Non lo richiede
tale la particolare crisi che investe alla radice il nostro modo di
vivere, sottraendolo ad ogni modello “egocentrato”, convenendo
con Jacques Gervet (Comportamento. Una realtà in cerca di
concetto, in Concetti nomadi) e nello stesso tempo traccia
segnali di una sua comprensione intersoggettiva?
Energia esplorativa,
altro della relativizzazione del soggetto fenomenologico: un fare
che realizza
il suggerimento di Nietzsche:
genealogia / genealogia conforme ad occhio micologico
(Adorno), adattabile all’uomo che da predatore si scelga
esploratore e le cui “scoperte” sollevi ad interrogativi
che dischiudano ulteriori interrogativi.
io
che restano io nell’ascolto intercomparativo, senza
individualismi e senza costituirsi Noi, mistificazione egemonica
Franco Riccio