domenica 8 marzo 2015

VENTIDUESIMO SOLILOQUIO

L’incentivo di Foucault del già citato suo propositivo di <staccare il potere della verità dalle forme (delle varie) egemonie> / il suo chiedersi intorno alla possibilità di <costituire una nuova politica della verità>, centrandone l’ostacolo da smussare, individuato, non nella sua critica <ai contenuti ideologici, né nel <cambiare la “coscienza” della gente>, ma <nel regime politico, economico, istituzionale di produzione della verità>, nel turbarmi, rivanga in me un’espressione di Rilke, da me letta in “Anterem”.
Espone quel mio sentire in trasparenza, tale da segnare in me la ristrettezza terminologica: <Ciò che qui nomini, questo è il pericolo, tutta la pura minaccia del mondo>.
Il regime di produzione della verità: la pura minaccia della gente senza firma – mi interrogo: non è capitale la domanda sulla genealogia del ricorso ricorrente al suo sbandieramento da parte di ogni forza che entra in scena e che di fatto ombra la giovinezza, propria di ogni emergenza che si fa storia? Genealogia, la quale, sollevandone all’attenzione, due prerogative, messe in risalto da Foucault e su cui rifletterò in seguito, provenienza e emergenza, il cui inviluppo, segnandone la datità e il relativo fronteggiarsi delle forze in competizione, rileva <il gioco casuale delle dominazioni>, non smentisce l’accreditato segno “intemporale” della trasparenza di sé a stessa di quel termine? Domanda eretica. Non rischia di insignificare la comunicazione nitida contro l’opacità dell’errore che quel vocabolo la tradizione ci ha trasmesso, enfatizzandolo? Verità – non l’abbiamo ricevuta, e noi, in contagio, l’abbiamo divulgata <centrata sulla forma del discorso scientifico e sulle istituzioni che lo producono> (Foucault)? Oggi, nell’emersione di <fattori gravitazionali>, come rileva Stengers (La complessità, in Concetti nomadi), che possono essere o insignificanti o cambiare tutto, messi in luce dalla ricerca scientifica, per un verso, e dall’altro, provocati dal tessuto del corpo sociale, non rende quella <memoria culturale> vacua? Nell’assiomatica del linguaggio con cui oggi si mostra la messa in scena del convincimento dei vari “specialisti” e degli “apprendisti specialisti”, non reintroduce in noi il pensare dell’egittologo del ritaglio, memoria culturale, nostalgia dei Greci? In tale reintroduzione inconscia non si rischia di far “tacere” la “cosa” che suscita il problema e la relativa disputa?

Paradosso vertiginoso / una parola ׀ mi ricorda Gorgia ׀ detentrice dell’esperienza di un mondo, occultato dai suoi ondeggiamenti incoativi, transitante, attraverso le sue sincope da una civiltà della parola ad un civiltà della scrittura, incamminandosi, oggi, verso una civiltà della tecnologia mobile.

Il momento che stiamo attraversando, vivendolo nella difficoltà assordata dalla confusione dei linguaggi, persino nel loro funzionamento logico e nell’invenzione di una nuova terminologia, non richiede la tempestività di un radicale interrogarci?
Non è questo il momento, per proteggerci dal pericolo della confusione, di prendere sul serio la confusione, strutturalmente omologata al linguaggio, e vederne le cause profonde?
Non diventa urgente l’interrogarci sulla progressiva canalizzazione di uno schema mentale, condizionante il nostro agire pensante a tal punto che, nell’osservare un fenomeno perturbante il nostro vivere la quotidianità, rigenera in noi una concettualità radicata <in una tradizione che ci ha dato accesso a un modello semplice, e che ha definito degli strumenti convenienti ai sistemi di questa natura> (Stengers, citata)?
Questo interrogarci non è già un prendere le distanze da ogni egemonia?
Non ci mette in condizione di produrre domande qualitativamente inedite?
Non dischiude la nostra singolare convinzione all’indispensabile ascolto di domande diverse?
Interrogando tali interrogativi, non facilitiamo una situazione relazione di ascolti che fa saltare la regola della soluzione data una volta per tutte, aprendo nuovi aspetti di ristrutturazione della disfunzione che pone il problema? Sollevarne in interrogativi, svincolati da enfasi moralistiche e mistiche, i focolai che la producono? Interrogativi dissimili in raffronto non competitivo ma comparativo, in forza del quale il turismo che fodera i dicibili dei rispettivi interlocutori, i quali, in realtà intervengono attivamente nel significato di ciò che è l’oggetto della disputa, ceda il posto all’osservazione pluriangolata del “dato” in questione? Ciò, in quanto ogni dato dissestante l’equilibrio della società non si dà in istanza unica per la pressione, esercitata dall’intreccio delle sue variabili causali e casuali? Non è in tale maglia il supporto in base al quale, si costituisce in un insieme di soluzioni, il cui confronto supporta la pratica del buon senso nella scelta operativa?

Condannati all’impotenza per diritto costituzionale, dobbiamo restare in attesa dei responsi che i grandi potenti del mondo in sinergia con i grandi della finanza ׀ povera democrazia! cosa è rimasto del sangue versato per te dai partigiani della resistenza? ׀ ci propinino nuove normative, le quali appaiano la superficie del fenomeno, ma non ne incrinano la radice?
Norme vitali per noi, in quanto regolativi del diritto al lavoro, allo studio, di determinate pratiche comportamentali, legiferati sotto il controllo della fiducia e senza mettere a fuoco, almeno in parallelo, il tentativo esplorativo di una individuazione di un possibile virus epidemico che abbia pregiudicato le pur splendide transizioni della nostra civiltà?

Ciò che oggi si mostra gramigna infestante, rendendo più complicata la nostra pratica quotidiana, già complicata dalla crisi mondiale, non è un fenomeno dell’oggi / leggiamo la nostra storia, fuori i manuali, dell’ieri spirato e dell’altro ieri ancora vivo, e riflettiamo sull’oggi: non è mancata la normativa; si è istituito il carcere duro; si è assistito allo svilimento della sovranità popolare, base della nostra conquistata democrazia, nel nome di un moralismo giuridico, nell’omertà dei politici e degli stessi cultori del diritto costituzionale, per sanità pubblica: il risultato: la fertilità di quella stessa gramigna, con l’aggravio della conflittuali dei poteri, con i quali si identifica lo stato di diritto; la nascita di corpuscoli “soggetti politici”, sbandieranti moralità, valori, lavoro, parità dei sessi, rivoluzione “civile”, igiene totale, sboccata da apprendisti stregoni, navigatori in rete - tutti in alternativa di governo del popolo, e nel nome verità - segno verbale di una cultura dell’io so, tu no; popolo, sopraffatto dalla miseria, disoccupazione, dalla difficoltà di vivere il quotidiano / il tutto riprodotto in spettacoli televisivi in orrore scenografico, orchestrato da saccenti conduttori.

Il mio interrogativo: la patologia, presupposto indispensabile per la ricerca degli agenti causali del persistere delle loro anomalie, nonostante le “cure”, dove viene praticata? L’elemento che più mi colpisce è, e per me è un attestato di cultura, che tali disfunzioni, perturbatrici del nostro rapporto sociale, non siano innanzitutto segnati dal marchio dell’esteriorità? Mi spiego: esteriorizzazione dell’acerbità della disfunzione che, per taluni motiva lo stato d’accusa della parte avversa, e per l’altra l’ostentata esposizione del proponibile segno del suo affrancamento – e il risolutivo? La solita storia.
Non è la loro recrudescenza che dà il segnale della consistenza del problema oggettivo? Non è tale evidenza provocatoria, appunto dell’intervento legislativo? Non va approfondita prima di risolverla in uno stretto determinismo psicologico, movente della conflittualità e del conteggio dei voti? Oggetto della diatriba non è il problema in quanto tale, ma ciò che si fa problema: la causa determinante, nel caso specifico, delle nostre disfunzioni: le anomalie, appunto, che mettono in gioco il nostro vivere quotidiano e il rapporto comunitario. / e noi zittiti per legittimata lesione? / ricorso in piazza con delega al sindacato, annebbiato dai vecchi schemi? Ricorso alla piazza, per dimostrare il nostro dissenso su questioni, intorno alle quali è palese l’assenza di un confronto di base? Non parliamo di movimenti redentoristi in rete, dove nuovo è lo strumento, vecchio il costume.
Rendo manifesto un mio pessimismo / me ne dispiace / un pessimismo sofferto che non si piega alla rassegnazione / il patirlo mi sprona ad agire, mettendomi a rischio: l’idea del blog / avvalersi come strumento operativo per uno spazio comunicativo aperto senza norme, senza programmazione tematica, se non quella di interrogarci, ognuno con le proprie convinzioni e con le proprie esperienze sulla crisi della società in quanto crisi della nostra cultura / interrogarci in una interazione comparativa, non conflittuale, per una circolazione di un ventaglio di pensieri differenti tra di loro come testimonianza della pacifica convivenza delle varie differenze / testimonianza,a sua volta, di un rispecchiamento della complessità della nostra esperienza dalla quale sorgono altrettanto problemi complessi, irriducibili al determinismo psicologico, anche del più esperto.

Le mie idee, l’oscurità del mio linguaggio, l’astrusità delle tematiche che sollevo non sono un referente condizionante alla proposto di intesa.
Sono mie determinazioni psicologiche / pensieri soggettivi, senza pretesa di una loro oggettività / sono pensieri maturati, legittimati soltanto dal mio diritto, come ogni uomo, anzi come l’ultimo degli uomini, di manifestare le mie idee e di manifestarli, nel rispetto dell’ascolto di chi pensa diversamente: io non sono un Noi.
Un Noi, il quale, secondo la mia convinzione, e che rimane tale, essendo una mia determinazione psicologica, provocata dagli studi e dalla pratica dell’impegno sociale, da rinvenire nella sua genesi, non secondo il testo, ma esplorando gli avvenimenti travagliati da conflitti, da instabilità di equilibri comunitari e da novità emergenti dal talento di uomini che dalla curiosità, stimolata dall’errore, hanno inaugurato nuovi orizzonti.
Penso in me / ne esterno la valutazione opinabile: non si rende necessario il ricorso ad una diversa energia esplorativa, svincolata da quella referenza, (verità) dettame dell’inclusione/esclusione, per una configurazione di una prassi del cambiamento? Non lo richiede tale la particolare crisi che investe alla radice il nostro modo di vivere, sottraendolo ad ogni modello “egocentrato”, convenendo con Jacques Gervet (Comportamento. Una realtà in cerca di concetto, in Concetti nomadi) e nello stesso tempo traccia segnali di una sua comprensione intersoggettiva?

Energia esplorativa, altro della relativizzazione del soggetto fenomenologico: un fare che realizza
il suggerimento di Nietzsche: genealogia / genealogia conforme ad occhio micologico (Adorno), adattabile all’uomo che da predatore si scelga esploratore e le cui “scoperte” sollevi ad interrogativi che dischiudano ulteriori interrogativi.


io che restano io nell’ascolto intercomparativo, senza individualismi e senza costituirsi Noi, mistificazione egemonica
Franco Riccio