Sfrondando un testo di Severino
del 1989, La filosofia futura, una frase increspa la
mia immaginazione
׀ frase
– attrattore frattale, per me / influsso di lettura,
provocante in me, quell’emozione materiale che
spinge il mio pensare verso ׀
appropriandomi,
senza ritegno, di singole espressioni di Derrida, le quali
esplicitano la mia intenzione ׀
un
<attraversamento questionante>, riconducibile <nei paraggi
del poetico> ׀
impressionata dalla spinta a
riflettere <ciò che non è mai stato discusso e che sta alla base
di tutto ciò che noi, abitatori dell’Occidente, siamo e sappiamo.
Rimane da discutere ciò che è stato ritenuto indiscutibile o di cui
si sono discusse solo le forme apparenti>.
Slitto la sua intenzione: <il
senso del divenire> / una riflessione non trascurabile / inaugura
una scelta di campo che dà valore fondante al conoscerci /
una scelta: non entro nel merito; né intendo prospettare la
discutibilità di certe questioni che possono rilevarsi, se
inquadrati a livello di un modello teorico più generale / il mio
dilemma, direi, ricordando Nietzsche, è, per così dire, a livello
“terapeutico”; livello, il cui esplicito non è espresso
nell’attivazione semantica denotativa, indirizzata a circoscrivere
un compiuto connettivo e quantificatorio, resistente all’usura
del tempo, ma attraverso i rilievi dei sintomi, i retaggi,
sollevare la causa della nostra malattia, la quale è
sociale, in quanto esso, in reciproca convertibilità con
l’individuale, <produce i suoi figli come la
proiezione biologica vuole che li produca la natura, cioè
“determinandoli ereditariamente”>: equiparazione di una
progettualità (Adorno, Minima moralia) di <modi e
mezzi di strutturare la psiche dell’individuo, così da indurlo ad
agire in certe prevedibili maniere> (A.I. Hallowell, Culture,
personality, and society) / esplicito, tra l’altro,
per nulla originale, poiché già sollevato da Nietzsche e
Adorno/Horkheimer, concordi nello smuovere la cristallizzazione di
una critica alla ragione sul modello illuministico e di indirizzarla
all’elemento formativo della cultura occidentale, e cioè alla
forma mentis.
Da tale angolazione, è
quell’indiscutibile, base di tutto ciò che noi siamo e
sappiamo, mi chiedo?
e il mio senso esplorativo
rintraccia nel saggio di I. Dobzhansky, non filosofo, ma,
psicologo sperimentalista, L’evoluzione della specie
umana, (Einaudi, 1965), una citazione di Hadas del 1959. da me
sconosciuto, che ha eccitato l’interrogarmi su quell’indiscusso
e dato alimento al mio intento: <Isocrate ci dice che Atene aveva
“fatto sì che il nome Ellade non distinguesse più la razza ma
l’intelletto, e il titolo di ellenico fosse un indice di educazione
anziché di discendenza comune”>.
Il mai discusso, non è
individuabile in quella citazione? Il non discuterlo non
segnala la ruga di vecchia del tentativo dell’altro della
ragione, specificamente nell’oggettivazione di Sé come Altro?
Nel rapporto tra connotazione
argomentativa e il fatto, anche nell’uso corretto di una sintassi
del linguaggio e persino nella sua critica, e, a maggior ragione, nel
linguaggio ordinario, attuato dalla svolta innovativa della
disgiunzione, rilevata da Schönberg, tra forma e sviluppo
tematico, tra soggetto e oggetto o tra, come nel
caso della prestazione nell’uso della tecnologia mobile,
soggetto e materiale, quella disgiunzione non sfocia
nella messa a punto di tecniche di normalizzazione?
Non stiamo ricreando in noi
stessi, sopraffatti, da un lato dal delirio delle interpretazioni
dagli “addetti ai lavori”, e dall’altro dalla corruzione
dilagante, dalla criminalità organizzata, e non, per sottrarci
dall’attuale instabilità del nostro vivere la quotidianità,
travagliato dalla disoccupazione, dalla scarsità del nostro potere
d’acquisto, l’esigenza della norma come protezione da
questa razionalità incerta?
Ciò mi spinge a un riflettere
pensoso / mi interrogo: non stiamo traghettando un torrente
burrascoso nell’oscurità, resa più greve dall’ampollosità
ridondante dei vaticini di tanti illuminati? Non ci stiamo
dimenticando: sia dalla nostra identità di uomini
occidentali, impregnati di individualismo e razionalità;
sia che ogni fenomeno emergente, ogni disfunzione è sociale,
quindi da riportare alla tessitura configurativa della società,
ordita da se stessa?
La cadenza rimbombante degli
avvenimenti in casa nostra, in miscellanea sagoma, e che si
aggrovigliano con quelli emergenti in Europa e in Asia, ai quali si
addiziona un “piombare” una sorta di rivoluzione climatica, non
ci impone una presa di coscienza in prima persona?
L’attenersi ad un
atteggiamento di denuncia o ad un posizionarsi neutro ed
affidarci a coloro che ne parlano o chiedere una normativa più
severa o affidare le redini del governarci a persone per bene,
non è un appagarci del nostro stato di appendice di un processo
sociale in cui vengono poste in gioco le nostre pratiche quotidiane?
L’esperienza di “mani
pulite”, la quale accende nella mia mente la parabola del fariseo
che decanta la sua verginità, nell’additare nel pubblicano il
peccatore incallito, ha estirpato la corruzione?
Se è un atto di giustizia
sociale legittimo e doveroso punire il colpevole del reato, il
persistere del fenomeno “corruzione”, lo stesso dicasi per il
fenomeno “mafia”, in una società, in cui il rapporto fra i suoi
componenti è alieno da ogni conflitto di esercizio del potere, non
deve porsi il problema politico della natura della sua causa
attiva; problema, quindi, non giuridico, la cui
pertinenza è in relazione all’accertamento del reato; ma
specificamente eziologico?
Perché da noi su tale argomento
vige un sorta di omertà del silenzio? Qualche voce si è udita. Pura
creazione mediatica. Strategia operazionale di candidatura al potere.
La prima cosa che mi colpisce
nelle tematiche sulla nostra società in crisi è il venir meno della
ricerca dei presupposti che ci permettono di orientarci nella
ricerca di una via da intraprendere. Promessa della soluzione dei
nostri problemi etico-politici attraverso l’altermativa
all’esercizio del potere.
Capacitarsi, e, quindi
conoscere, è la titolarità del prendere coscienza,
in quanto individuo comunitario: proprio oggi, nel
vivere una crisi di vaste proporzioni che investe sì economia,
finanzia, lavoro, ma dalla quale traspirano, in rapida accelerazione,
venti di avvisaglie di mutazioni che investono alla radice la
nostra cultura; una tra le varie, nella linearità di
corrispondenza tra genotipo e fenotipo, per un ?
genotipo, provocato da una crescente osmosi tra razze diverse.
Titolarità, la quale si
impone al di fuori di ogni alternativa di potere o soluzione della
crisi – ritorno di una forma classica di antagonismo /
riproposizione di un metodo razionale e oggettivante.
Titolarità si impone
come provocazione a risvegliare le coscienze a prendere
consapevolezza di una questione tacitata e che sta alla radice
della nostra cultura: come pensiamo / ravvivare il
nostro problema di sempre, negato da coloro che non vi vedono
alcuno argomento valido.
Abbiamo
bisogno di storia.
Franco Riccio