domenica 15 febbraio 2015

DICIANNOVESIMO SOLILOQUIO


Sfrondando un testo di Severino del 1989, La filosofia futura, una frase increspa la mia immaginazione

׀ fraseattrattore frattale, per me / influsso di lettura, provocante in me, quell’emozione materiale che spinge il mio pensare verso ׀ appropriandomi, senza ritegno, di singole espressioni di Derrida, le quali esplicitano la mia intenzione ׀ un <attraversamento questionante>, riconducibile <nei paraggi del poetico> ׀

impressionata dalla spinta a riflettere <ciò che non è mai stato discusso e che sta alla base di tutto ciò che noi, abitatori dell’Occidente, siamo e sappiamo. Rimane da discutere ciò che è stato ritenuto indiscutibile o di cui si sono discusse solo le forme apparenti>.

Slitto la sua intenzione: <il senso del divenire> / una riflessione non trascurabile / inaugura una scelta di campo che dà valore fondante al conoscerci / una scelta: non entro nel merito; né intendo prospettare la discutibilità di certe questioni che possono rilevarsi, se inquadrati a livello di un modello teorico più generale / il mio dilemma, direi, ricordando Nietzsche, è, per così dire, a livello “terapeutico”; livello, il cui esplicito non è espresso nell’attivazione semantica denotativa, indirizzata a circoscrivere un compiuto connettivo e quantificatorio, resistente all’usura del tempo, ma attraverso i rilievi dei sintomi, i retaggi, sollevare la causa della nostra malattia, la quale è sociale, in quanto esso, in reciproca convertibilità con l’individuale, <produce i suoi figli come la proiezione biologica vuole che li produca la natura, cioè “determinandoli ereditariamente”>: equiparazione di una progettualità (Adorno, Minima moralia) di <modi e mezzi di strutturare la psiche dell’individuo, così da indurlo ad agire in certe prevedibili maniere> (A.I. Hallowell, Culture, personality, and society) / esplicito, tra l’altro, per nulla originale, poiché già sollevato da Nietzsche e Adorno/Horkheimer, concordi nello smuovere la cristallizzazione di una critica alla ragione sul modello illuministico e di indirizzarla all’elemento formativo della cultura occidentale, e cioè alla forma mentis.

Da tale angolazione, è quell’indiscutibile, base di tutto ciò che noi siamo e sappiamo, mi chiedo?

e il mio senso esplorativo rintraccia nel saggio di I. Dobzhansky, non filosofo, ma, psicologo sperimentalista, L’evoluzione della specie umana, (Einaudi, 1965), una citazione di Hadas del 1959. da me sconosciuto, che ha eccitato l’interrogarmi su quell’indiscusso e dato alimento al mio intento: <Isocrate ci dice che Atene aveva “fatto sì che il nome Ellade non distinguesse più la razza ma l’intelletto, e il titolo di ellenico fosse un indice di educazione anziché di discendenza comune”>.

Il mai discusso, non è individuabile in quella citazione? Il non discuterlo non segnala la ruga di vecchia del tentativo dell’altro della ragione, specificamente nell’oggettivazione di Sé come Altro?
Nel rapporto tra connotazione argomentativa e il fatto, anche nell’uso corretto di una sintassi del linguaggio e persino nella sua critica, e, a maggior ragione, nel linguaggio ordinario, attuato dalla svolta innovativa della disgiunzione, rilevata da Schönberg, tra forma e sviluppo tematico, tra soggetto e oggetto o tra, come nel caso della prestazione nell’uso della tecnologia mobile, soggetto e materiale, quella disgiunzione non sfocia nella messa a punto di tecniche di normalizzazione?
Non stiamo ricreando in noi stessi, sopraffatti, da un lato dal delirio delle interpretazioni dagli “addetti ai lavori”, e dall’altro dalla corruzione dilagante, dalla criminalità organizzata, e non, per sottrarci dall’attuale instabilità del nostro vivere la quotidianità, travagliato dalla disoccupazione, dalla scarsità del nostro potere d’acquisto, l’esigenza della norma come protezione da questa razionalità incerta?

Ciò mi spinge a un riflettere pensoso / mi interrogo: non stiamo traghettando un torrente burrascoso nell’oscurità, resa più greve dall’ampollosità ridondante dei vaticini di tanti illuminati? Non ci stiamo dimenticando: sia dalla nostra identità di uomini occidentali, impregnati di individualismo e razionalità; sia che ogni fenomeno emergente, ogni disfunzione è sociale, quindi da riportare alla tessitura configurativa della società, ordita da se stessa?

La cadenza rimbombante degli avvenimenti in casa nostra, in miscellanea sagoma, e che si aggrovigliano con quelli emergenti in Europa e in Asia, ai quali si addiziona un “piombare” una sorta di rivoluzione climatica, non ci impone una presa di coscienza in prima persona?
L’attenersi ad un atteggiamento di denuncia o ad un posizionarsi neutro ed affidarci a coloro che ne parlano o chiedere una normativa più severa o affidare le redini del governarci a persone per bene, non è un appagarci del nostro stato di appendice di un processo sociale in cui vengono poste in gioco le nostre pratiche quotidiane?
L’esperienza di “mani pulite”, la quale accende nella mia mente la parabola del fariseo che decanta la sua verginità, nell’additare nel pubblicano il peccatore incallito, ha estirpato la corruzione?
Se è un atto di giustizia sociale legittimo e doveroso punire il colpevole del reato, il persistere del fenomeno “corruzione”, lo stesso dicasi per il fenomeno “mafia”, in una società, in cui il rapporto fra i suoi componenti è alieno da ogni conflitto di esercizio del potere, non deve porsi il problema politico della natura della sua causa attiva; problema, quindi, non giuridico, la cui pertinenza è in relazione all’accertamento del reato; ma specificamente eziologico?

Perché da noi su tale argomento vige un sorta di omertà del silenzio? Qualche voce si è udita. Pura creazione mediatica. Strategia operazionale di candidatura al potere.
La prima cosa che mi colpisce nelle tematiche sulla nostra società in crisi è il venir meno della ricerca dei presupposti che ci permettono di orientarci nella ricerca di una via da intraprendere. Promessa della soluzione dei nostri problemi etico-politici attraverso l’altermativa all’esercizio del potere.

Capacitarsi, e, quindi conoscere, è la titolarità del prendere coscienza, in quanto individuo comunitario: proprio oggi, nel vivere una crisi di vaste proporzioni che investe sì economia, finanzia, lavoro, ma dalla quale traspirano, in rapida accelerazione, venti di avvisaglie di mutazioni che investono alla radice la nostra cultura; una tra le varie, nella linearità di corrispondenza tra genotipo e fenotipo, per un ? genotipo, provocato da una crescente osmosi tra razze diverse.

Titolarità, la quale si impone al di fuori di ogni alternativa di potere o soluzione della crisi – ritorno di una forma classica di antagonismo / riproposizione di un metodo razionale e oggettivante.
Titolarità si impone come provocazione a risvegliare le coscienze a prendere consapevolezza di una questione tacitata e che sta alla radice della nostra cultura: come pensiamo / ravvivare il nostro problema di sempre, negato da coloro che non vi vedono alcuno argomento valido.

Abbiamo bisogno di storia.
Franco Riccio

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