La scuola nell’esperienza mondana della crisi…il risveglio del problema: i miei interrogativi.
Crisi…il cui
segnale critico delle sue perturbazioni…se richiede l’immediato rimedio in
relazione a determinate soluzioni…non rivela un <segnale di allarme>, il
quale va al di là delle congiunture, in quanto…nella trasformazione finanziaria
dell’economia…viene messo in luce un mutamento sostanziale che
modifica…concordando con Bordoni (Stato
di crisi)…in profondità quel nostro modo di vivere che si definiva modernità?
Se è leggibile tale
interrogativo, la nostra pratica del
vivere non sta sperimentando, oggi, più che un mutuare, cioè quel passaggio al limite…la nostra memoria culturale…ma una mutazione culturale?
Il suo riscontro non è visibilmente
verificabile nel lievitarsi dell’instabilità del nostro equilibrio sociale,
ingarbugliato nel groviglio della recrudescenza di problemi irrisolti e
dall’insorgere nuovi problemi generati
da quella crisi economica a livello mondiale, la quale, per la sua
eccezionalità…spostamento del centro di produttività dalla fabbrica alla banca…ci
predispone all’arbitrio?
In tale trasferimento non è
rintracciabile, se non l’unica causa, l’instaurazione della condizione permanente di quel mondo liquido, descritto da Bordoni, in
quanto…nel delinearsi in essa <un
oceano in movimento in cui si combinano incessantemente i rapporti economici,
sociali e culturali>…immerge vite umane <nella liquidità
dell’esistenza>, poiché <minacciate nella sicurezza economica ed esistenziale>
e, quindi necessitate a preoccuparsi <del proprio interesse personale e di
salvaguardarsi in vista del presente instabile e di un futuro incerto>?
Tale instabilità non è anche documentabile dal disarmo politico degli Stati, poiché il loro potere si è concentrato nelle mani di gruppi finanzieri – forze
sovranazionali che sfuggono ad ogni controllo (Rimando ai miei due cicli sulla crisi)?
Scegliendo, in questo ciclo il silenzio sulla politica del mio
paese, soffusa di moralismo infuso di mistico pietismo, il mio interrogativo:
la visibilità della trasformazione in atto del nostro modo di vivere non va
capita oggi per preparare il domani? In questa fase, che non si delinea transitoria
perché si fa regola di vita, non dovrebbe costituire il problema condizionante ogni riforma e soprattutto la scuola?
La scuola non è quel canale di trasmissione…che si costituisce a tessuto formativo…di
quell’unico modello, il quale è
<quello in cui la coscienza penetri nella complessione generale della
società e attraverso questa in quella dell’individuo> (Adorno, Dialettica negativa)?
In tale processo non viene a
tessersi il telaio formativo della formazione del nostro pensare, attraverso i canali del contagio e dell’educazione?
Il modello non è lo stampo,
il quale…se non fonda la razionalità della normativa
che regola i comportamenti individuali e sociali della comunità…se non
fissa dettagli pratici di comportamento…non ne dispiega…attraverso i saperi…formalizzati nei loro processi di oggettivazione…la normalizzazione? (leggere Foucault).
La scuola non è il canale più qualificato per la sua trasmissione sia
della famiglia sia del contagio dell’ambiente di frequenza? Tale distinzione
qualitativa non è dovuta perché…e in ciò mi sostengono Apel e Habermas…la
comunicazione, per il suo tipo di approccio di rigorosità selettiva, è
fondamentalmente normativa e, in
correlazione, privilegia la dimensione della parola nella relazione di transfert fra docente e classe di
allievi, in dispari per capacità di apprendimento? Non essendo un transfert
psicanalitico, ma di apprendimento…cioè
di viaggi di concetti. attraverso
l’azione della parola, fra chi sa, ed è educato, secondo la sua formazione,
a trasmetterlo, e chi ancora non sa, normato dalla cultura dell’ambiente di
provenienza…quell’azione non va
chiamata in causa?
In essa, nella situazione
particolare rappresentata dalla trasmissione,
non costituisce, come sempre, una determinante
posta gioco socioculturale? Mettendo in parentesi le conclusioni del
sociobiologismo di riduzione del sociale al biologico, quell’azione della parola…specificatamente nel
transfert di apprendimento…il rilievo che esso evidenzia di origine genetico,
riproposto nel processo genealogico
della formazione di quello, che, nella definizione di Frege, è il < nucleo
logico> della nostra matrice culturale, non fornisce l’elemento che
chiarisce la funzione di quel transfert nel
suo rapporto con l’ordine sociale?
Cioè: la riproduzione di una
<unica condotta razionale attraverso la quale la nostra società rappresenta
la sua razionalità> (Pierre Livet, Norme.
I difficili rapporti del razionale e del normativo, in Concetti nomadi)? Tale rilievo non è degno di attenzione in una
riforma della scuola?
Il silenzio su quel rilievo nel
propositivo di riforma della nostra scuola non smarrisce lo statuto di
“causa”che l’ha posta in essere, e cioè la motivazione
culturale a base della crisi?
In tale silenzio non è
implicita la riproduzione di quell’unica
condotta che rappresenta la nuova
razionalità del nostro vincolo
sociale?
Il che non verifica l’essere
ancora oggi concettualmente radicati a quella linea tradizionale, in una
situazione sociale che ci sfugge di mano e ci travolge?
In tale insorgenza, intelligibile
nel suo manifestarsi, inanalizzabile nei suoi sviluppi, non va interrogata con
nuovi criteri nella sua relazione tra struttura sociale ed economia? Tali
criteri non vengono a costituirsi il problema profondo, in quanto investe…se ben riflettiamo fuori dai soliti schemi
che hanno filmato quel rapporto…l’autonomia
o la dipendenza delle scelte individuali e sociali? Criteri, quindi, che sviluppano le
potenzialità di autonomia offerte dalla loro pluralità o che fomentano quella irrazionalità, la quale <lascia campo
libero alla pura volontà di potenza> - il quesito che si pone Livet sulle
norme in Concetti nomadi, riproposto
da me a livello del criterio…matrice culturale…che istruisce le
norme?
In quel dilemma non è il logorarsi dell’esperienza con cui viviamo la
nostra mondanità? Esperienza su cui imperversa l’inquietante interrogativo di
che cosa porterà il domani alle nuove generazioni?
In tale interrogativo non è
chiamata in causa la scuola, canale di trasmissione, e in pari funzione non
entrano in comunicazione l’intelligibilità e la normatività sia del presente storico sia dell’attualità nell’esercizio di trasmissione?
Ciò non costituisce elemento di
riflessione in una riforma che non vuol essere riassetto amministrativo, ma terreno
propulsore di rivolgimento culturale
del nostro vivere individuale e sociale in modo che…seguendo l’indicazione di
Adorno (Parole chiave)…l’individuale
sia tale in quanto sociale, e viceversa il sociale sia tale in quanto
individuale?
In tale prospettiva non viene
spontaneo chiedersi di che scuola
parliamo? Il già scontato che attualizziamo
nell’adeguazione al vento d’oggi? Un vento soffiato da un
Eolo grondante di un capitale virtuale,
provocatore di una divisione strutturale fra individuo e il sociale?
Non si rende indispensabile
predisporre la scuola a terreno didattico propulsore di interazione tra
acquisizione di conoscenze, in corrispondenza genealogica dello sviluppo della
civiltà, e situazione in atto di esperienza, in modo che la trasmissione, come oggetto di studio,
integri il materiale affettivo, rappresentativo e simbolico dei due momenti: il
vissuto e il vivente? L’instaurazione di tale correlazione, che definirei topologica, non libera un tempo di
studio che attiva il presente nel passato su misura degli allievi, in
rapporto al loro livello evolutivo? In essa e per essa, alla passività
dell’ascolto, non subentra un avvicendarsi di domande e risposte, per
la quale la nozione non viene ingurgitata, ma problematicizzata? Non stimola l’allievo ad esercitare il suo agire pensante? La tanta acclamata rivoluzionie culturale, non passa attraverso
il come pensiamo? E tale
possibilità…soprattutto nell’attualità della liquidazione sociale…se non vogliamo che le generazioni future
siano la forma riflessa di quel processo…non è rinvenibile in una educazione scolastica che in quel transfert di apprendimento…non
definibile a partire dalla costruzione statistica
o burocratica del rendimento del
lavoratore medio…risvegli in ciascun allievo la capacità di un pensare che <non si lascia inquadrare
a priori nel sistema eteronomo dei compiti stabiliti dall’alto> (Adorno)?
Non è attraverso tale capacità
del pensare la conquista di ogni
individuo, qualunque sia la sua condizione socio-economica e la qualità della
sua sessualità, della propria autonomia?
In tale conquista…che ci fa uguali nella diversità…non
bisogna rinvenire l’energia necessaria
per riappropriarci di quella solidarietà
sociale, sottrattaci da un
individualismo che ci rende stranieri
nel nostro luogo natio; capirne la causa
in quella che è l’ideologia del capitalismo – l’unica
sopravissuta?
Non costituisce il dilemma
spinoso in questo momento di
perturbazione economica, in quanto investe la coscienza storica che
ciascuno di noi ha della nostra cultura e, a maggior ragione, di chi legifera e di chi è chiamato a trasmetterla?
Se, sulla nostra pelle,
riscontriamo le ferite di una precariato
del vivere la nostra mondanità - un precariato…formativo
di una impalcatura cognitiva di una
cultura dell’immediato che ci avviluppa in un presente senza futuro…- non
dobbiamo interrogarci sul nostro coinvolgimento in atto che ci spinge all’indifferenza o alla rassegnazione?
Non vi viene il sospetto che la
confusione delle idee e dello stesso linguaggio si radichi su tale
coinvolgimento, tanto da persuaderci…autorevoli e non…di una svolta culturale per una crisi che nel
presentarsi in quella linea rossa di
un capitalismo in morfosi, quindi
economica, mostra…in quel figurato
camaleontico…i sintomi di una riproduzione della nostra logica culturale in coerenza al suo nuovo modo di produzione, tanto da
aleggiare un neoliberalismo che
dissolve la naturale situazione relazionale di ogni individuo in individuo in
balìa del vento? In tale status non
si volatilizzano le certezze?
Perché non proviamo a rifletterla
interrogandoci, scuotendoci…noi non autorevoli…dall’apatia in cui siamo
scivolati, - ripiego come autodifesa personale di fronte al nostro isolamento?
Non viene spontaneo chiederci il
perché del nostro differenziarci dall’ieri
e dell’altro ieri? La diversità
non è individuabile…insisto sino alla nausea…nella trasformazione sociale,
provocata da un capitale virtuale?
In tale virtualità, per la sua incontrollabilità, non vi è quella perdita
di certezze che incanala il nostro agire
pensante verso il proprio interesse
individuale e di tutelarsi dall’instabilità del momento e dall’incognita
del futuro? Nel generalizzarsi non diventa costume
– quindi cultura di un popolo?
In quanto tale, non si rende
indispensabile…e, quindi, condizione necessaria alla nostra emancipazione,
affrancata da quella rassegnazione
che ci condanna a permanere appendici
nell’organizzazione del vivere, snaturando quel legame…non vincolo…che ci
esterna individui in relazione…una scuola che maturi i giovani, sin dalla prima infanzia, ad un agire pensante secondo autonomia?
Non è proprio questo bisogno di un agire pensante senza ipoteche
di qualsiasi genere che ci spinge a meditate la possibilità di agire pensante
in grado di liberare il lavoro dalla dipendenza…il diritto allo studio a svincolarlo dalla professione più alta…dalla gestione del nostro spazio di
convivenza…della parità delle
uguaglianze delle diversità senza ricorso al riconoscimento giuridico?
Questo bisogno non è sollevato dall’ambientarsi quella impalcatura cognitiva che fonda la libertà individuale sull’illibertà –
effetto solvente di un capitalismo a registro finanziario, ribadisco?
Se tale impalcatura segna il clima della nostra temporalità, non diviene il
nostro campo d’azione di intervento ecologico?
Intervento, la cui effettualità non può che transitare per quella interazione insegnante e allievi che fa quel transfert di apprendimento mediante l’azione della parola l’attrattore gravitazionale di tutte
quelle funzioni che definiscono una scuola? Spezzare quell’interazione e centrare la riforma sul professore, con tutti gli accorgimenti ritenuti utili, ma
inefficaci se non sono funzionali al suo potenziamento, non è un rimpiazzare come obbligo dovuto in ogni
cambio di governo?
Non è in quel transfert mediante l’azione della parola…risveglio del problema…la formazione mentale del come pensiamo? Non è in esso da cercare
il virus della causalità
socioculturale della <gerarchia violenta> dei saperi (Derrida, Posizioni)? della gerarchia dei ruoli?
della disuguaglianza sociale ed economica? del denaturare il legame sociale che ci alligna uguali nella differenza, trasformandolo
in vincolo?
Una riforma non dovrebbe partire
dallo snidare in esso quella parola
che identifica e trasmette, per esprimermi nel linguaggio di Lacan, una esperienza di verità? Quella parola, forza energetica dalla logica della nostra cultura, non interrogata non ripropone tempi ripetitivi?
Franco Riccio