lunedì 14 marzo 2016

QUARANTUNESIMO SOLILOQUIO

La scuola nell’esperienza mondana della crisi…il risveglio del problema: i miei interrogativi.

Crisi…il cui segnale critico delle sue perturbazioni…se richiede l’immediato rimedio in relazione a determinate soluzioni…non rivela un <segnale di allarme>, il quale va al di là delle congiunture, in quanto…nella trasformazione finanziaria dell’economia…viene messo in luce un mutamento sostanziale che modifica…concordando con Bordoni (Stato di crisi)…in profondità quel nostro modo di vivere che si definiva modernità?
Se è leggibile tale interrogativo, la nostra pratica del vivere non sta sperimentando, oggi, più che un mutuare, cioè quel passaggio al limite…la nostra memoria culturale…ma una mutazione culturale?
Il suo riscontro non è visibilmente verificabile nel lievitarsi dell’instabilità del nostro equilibrio sociale, ingarbugliato nel groviglio della recrudescenza di problemi irrisolti e dall’insorgere nuovi problemi generati  da quella crisi economica a livello mondiale, la quale, per la sua eccezionalità…spostamento del centro di produttività dalla fabbrica alla banca…ci predispone all’arbitrio?
In tale trasferimento non è rintracciabile, se non l’unica causa, l’instaurazione della condizione permanente di quel mondo liquido, descritto da Bordoni, in quanto…nel delinearsi in essa <un oceano in movimento in cui si combinano incessantemente i rapporti economici, sociali e culturali>…immerge vite umane <nella liquidità dell’esistenza>, poiché <minacciate nella sicurezza economica ed esistenziale> e, quindi necessitate a preoccuparsi <del proprio interesse personale e di salvaguardarsi in vista del presente instabile e di un futuro incerto>?   
Tale instabilità non è anche documentabile dal disarmo politico degli Stati, poiché il loro potere si è concentrato nelle mani di gruppi finanzieri – forze sovranazionali che sfuggono ad ogni controllo (Rimando ai miei due cicli sulla crisi)?

Scegliendo, in questo ciclo il silenzio sulla politica del mio paese, soffusa di moralismo infuso di mistico pietismo, il mio interrogativo: la visibilità della trasformazione in atto del nostro modo di vivere non va capita oggi per preparare il domani? In questa fase, che non si delinea transitoria perché si fa regola di vita, non dovrebbe costituire il problema condizionante ogni riforma e soprattutto la scuola?
La scuola non è quel canale di trasmissioneche si costituisce a tessuto formativo…di quell’unico modello, il quale è <quello in cui la coscienza penetri nella complessione generale della società e attraverso questa in quella dell’individuo> (Adorno, Dialettica negativa)?
In tale processo non viene a tessersi il telaio formativo della formazione del nostro pensare, attraverso i canali del contagio e dell’educazione?
Il modello non è lo stampo, il quale…se non fonda la razionalità della normativa che regola i comportamenti individuali e sociali della comunità…se non fissa dettagli pratici di comportamento…non ne dispiega…attraverso i saperi…formalizzati nei loro processi di oggettivazione…la normalizzazione? (leggere Foucault).
La scuola non è il canale più qualificato per la sua trasmissione sia della famiglia sia del contagio dell’ambiente di frequenza? Tale distinzione qualitativa non è dovuta perché…e in ciò mi sostengono Apel e Habermas…la comunicazione, per il suo tipo di approccio di rigorosità selettiva, è fondamentalmente normativa e, in correlazione, privilegia la dimensione della parola nella relazione di transfert fra docente e classe di allievi, in dispari per capacità di apprendimento? Non essendo un transfert psicanalitico, ma di apprendimento…cioè di viaggi di concetti. attraverso l’azione della parola, fra chi sa, ed è educato, secondo la sua formazione, a trasmetterlo, e chi ancora non sa, normato dalla cultura dell’ambiente di provenienza…quell’azione non va chiamata in causa?
In essa, nella situazione particolare rappresentata dalla trasmissione, non costituisce, come sempre, una determinante posta gioco socioculturale? Mettendo in parentesi le conclusioni del sociobiologismo di riduzione del sociale al biologico, quell’azione della parola…specificatamente nel transfert di apprendimento…il rilievo che esso evidenzia di origine genetico, riproposto nel processo genealogico della formazione di quello, che, nella definizione di Frege, è il < nucleo logico> della nostra matrice culturale, non fornisce l’elemento che chiarisce la funzione di quel transfert nel suo rapporto con l’ordine sociale?
Cioè: la riproduzione di una <unica condotta razionale attraverso la quale la nostra società rappresenta la sua razionalità> (Pierre Livet, Norme. I difficili rapporti del razionale e del normativo, in Concetti nomadi)? Tale rilievo non è degno di attenzione in una riforma della scuola?
Il silenzio su quel rilievo nel propositivo di riforma della nostra scuola non smarrisce lo statuto di “causa”che l’ha posta in essere, e cioè la motivazione culturale a base della crisi?
In tale silenzio non è implicita la riproduzione di quell’unica condotta che rappresenta la nuova razionalità del nostro vincolo sociale?
Il che non verifica l’essere ancora oggi concettualmente radicati a quella linea tradizionale, in una situazione sociale che ci sfugge di mano e ci travolge?
In tale insorgenza, intelligibile nel suo manifestarsi, inanalizzabile nei suoi sviluppi, non va interrogata con nuovi criteri nella sua relazione tra struttura sociale ed economia? Tali criteri non vengono a costituirsi il problema profondo, in quanto investe…se ben riflettiamo fuori dai soliti schemi che hanno filmato quel rapporto…l’autonomia o la dipendenza delle scelte individuali e sociali? Criteri, quindi, che sviluppano le potenzialità di autonomia offerte dalla loro pluralità o che fomentano quella irrazionalità, la quale <lascia campo libero alla pura volontà di potenza> - il quesito che si pone Livet sulle norme in Concetti nomadi, riproposto da me a livello del criteriomatrice culturale…che istruisce le norme?
In quel dilemma non è il logorarsi dell’esperienza con cui viviamo la nostra mondanità? Esperienza su cui imperversa l’inquietante interrogativo di che cosa porterà il domani alle nuove generazioni?
In tale interrogativo non è chiamata in causa la scuola, canale di trasmissione, e in pari funzione non entrano in comunicazione l’intelligibilità e la normatività sia del presente storico sia dell’attualità nell’esercizio di trasmissione?
Ciò non costituisce elemento di riflessione in una riforma che non vuol essere riassetto amministrativo, ma terreno propulsore di rivolgimento culturale del nostro vivere individuale e sociale in modo che…seguendo l’indicazione di Adorno (Parole chiave)…l’individuale sia tale in quanto sociale, e viceversa il sociale sia tale in quanto individuale?
In tale prospettiva non viene spontaneo chiedersi di che scuola parliamo? Il già scontato che attualizziamo nell’adeguazione al vento d’oggi? Un vento soffiato da un Eolo grondante di un capitale virtuale, provocatore di una divisione strutturale fra individuo e il sociale?
Non si rende indispensabile predisporre la scuola a terreno didattico propulsore di interazione tra acquisizione di conoscenze, in corrispondenza genealogica dello sviluppo della civiltà, e situazione in atto di esperienza, in modo che la trasmissione, come oggetto di studio, integri il materiale affettivo, rappresentativo e simbolico dei due momenti: il vissuto e il vivente? L’instaurazione di tale correlazione, che definirei topologica, non libera un tempo di studio che attiva il presente nel passato su misura degli allievi, in rapporto al loro livello evolutivo? In essa e per essa, alla passività dell’ascolto, non subentra un avvicendarsi di domande e risposte, per la quale la nozione non viene ingurgitata, ma problematicizzata? Non stimola l’allievo ad esercitare il suo agire pensante? La tanta acclamata rivoluzionie culturale, non passa attraverso il come pensiamo? E tale possibilità…soprattutto nell’attualità della liquidazione sociale…se non vogliamo che le generazioni future siano la forma riflessa di quel processo…non è rinvenibile in una educazione scolastica che in quel transfert di apprendimento…non definibile a partire dalla costruzione statistica o burocratica del rendimento del lavoratore medio…risvegli in ciascun allievo la capacità di un pensare che <non si lascia inquadrare a priori nel sistema eteronomo dei compiti stabiliti dall’alto> (Adorno)?

Non è attraverso tale capacità del pensare la conquista di ogni individuo, qualunque sia la sua condizione socio-economica e la qualità della sua sessualità, della propria autonomia?
In tale conquista…che ci fa uguali nella diversità…non bisogna rinvenire l’energia necessaria per riappropriarci di quella solidarietà sociale, sottrattaci da un individualismo che ci rende stranieri nel nostro luogo natio; capirne la causa in quella che è l’ideologia del capitalismo – l’unica sopravissuta?   
Non costituisce il dilemma spinoso in questo momento di  perturbazione economica, in quanto investe la coscienza storica che ciascuno di noi ha della nostra cultura e, a maggior ragione, di chi legifera e di chi è chiamato a trasmetterla?
Se, sulla nostra pelle, riscontriamo le ferite di una precariato del vivere la nostra mondanità - un precariato…formativo di una impalcatura cognitiva di una cultura dell’immediato che ci avviluppa in un presente senza futuro…- non dobbiamo interrogarci sul nostro coinvolgimento in atto che ci spinge all’indifferenza o alla rassegnazione?
Non vi viene il sospetto che la confusione delle idee e dello stesso linguaggio si radichi su tale coinvolgimento, tanto da persuaderci…autorevoli e non…di una svolta culturale per una crisi che nel presentarsi in quella linea rossa di un capitalismo in morfosi, quindi economica, mostra…in quel figurato camaleontico…i sintomi di una riproduzione della nostra logica culturale in coerenza al suo nuovo modo di produzione, tanto da aleggiare un neoliberalismo che dissolve la naturale situazione relazionale di ogni individuo in individuo in balìa del vento? In tale status non si volatilizzano le certezze?
Perché non proviamo a rifletterla interrogandoci, scuotendoci…noi non autorevoli…dall’apatia in cui siamo scivolati, - ripiego come autodifesa personale di fronte al nostro isolamento?
Non viene spontaneo chiederci il perché del nostro differenziarci dall’ieri e dell’altro ieri? La diversità non è individuabile…insisto sino alla nausea…nella trasformazione sociale, provocata da un capitale virtuale?
In tale virtualità, per la sua incontrollabilità, non vi è quella perdita di certezze che incanala il nostro agire pensante verso il proprio interesse  individuale e di tutelarsi dall’instabilità del momento e dall’incognita del futuro? Nel generalizzarsi non diventa costume – quindi cultura di un popolo? 
In quanto tale, non si rende indispensabile…e, quindi, condizione necessaria alla nostra emancipazione, affrancata da quella rassegnazione che ci condanna a permanere appendici nell’organizzazione del vivere, snaturando quel legame…non vincolo…che ci esterna individui in relazione…una scuola che maturi i giovani, sin dalla prima infanzia, ad un agire pensante secondo autonomia?
Non è proprio questo bisogno di un agire pensante senza ipoteche di qualsiasi genere che ci spinge a meditate la possibilità di agire pensante in grado di liberare il lavoro dalla dipendenzail diritto allo studio a svincolarlo dalla professione più altadalla gestione del nostro spazio di convivenza…della parità delle uguaglianze delle diversità senza ricorso al riconoscimento giuridico?
 Questo bisogno non è sollevato dall’ambientarsi quella impalcatura cognitiva che fonda la libertà individuale sull’illibertà – effetto solvente di un capitalismo a registro finanziario, ribadisco?
Se tale impalcatura segna il clima della nostra temporalità, non diviene il nostro campo d’azione di intervento ecologico? Intervento, la cui effettualità non può che transitare per quella interazione insegnante e allievi che fa quel transfert di apprendimento mediante l’azione della parola l’attrattore gravitazionale di tutte quelle funzioni che definiscono una scuola? Spezzare quell’interazione e centrare la riforma sul professore, con tutti gli accorgimenti ritenuti utili, ma inefficaci se non sono funzionali al suo potenziamento, non è un rimpiazzare come obbligo dovuto in ogni cambio di governo?
 Non è in quel transfert mediante l’azione della parola…risveglio del problema…la formazione mentale del come pensiamo? Non è in esso da cercare il virus della causalità socioculturale della <gerarchia violenta> dei saperi (Derrida, Posizioni)? della gerarchia dei ruoli? della disuguaglianza sociale ed economica? del denaturare il legame sociale che ci alligna uguali nella differenza, trasformandolo in vincolo?
Una riforma non dovrebbe partire dallo snidare in esso quella parola che identifica e trasmette, per esprimermi nel linguaggio di Lacan, una esperienza di verità? Quella parola, forza energetica dalla logica della nostra cultura, non interrogata non ripropone tempi ripetitivi?

l’intento della mia riflessione del prossimo blog     
Franco Riccio