giovedì 29 gennaio 2015

SEDICESIMO SOLILOQUIO

Riattivo l’esternazione del XIV sol., collegandomi a quel per me, segnalato non protocollo, formulario di una teoria, ma possibilità configurativa di una dinamica del nostro agire pensante, la quale si attivi nel potenziare sviluppi  intercomunicativi di spazi non duplicativi di vivibilità in tutt’uno con il moto erratico del farsi dell’esperienza nelle sue complesse articolazioni.

Attività tendenziale, pertanto / un agire, un fare pensante in circolarità di pensieri in interazioni a distanza con le varie emergenze attraverso le quali spiega tutta quella forza trasformatrice di metamorfosi, di cui parla Morin (E.Morin, La Méthode), divenendo la condizione di esistenza delle interazioni, le quali, a loro volta, influenzano il suo sviluppo.
In tale operatività, se riflettiamo sulla sua tensione, non lascia filtrare l’aspetto centrale di una questione che mostra, oggi, una irreversibile risolutezza, se è subordinata ad una risoluzione prefigurata, la quale, per la qualità culturale del suo segno, restringerebbe la sua complessa problematicità al proprio cerchio e al proprio operare, tenendo lontani flussi estranei?
Prefigurato, mi interrogo, non attualizza quella configurazione umbrabile di quella vuota rappresentazione del vivere, falsificatrice, e quindi, fuorviante  di un agire pensante in interazione orizzontale con i suoi simile nella creazione di spazi comuni di convivibilità?
Oggi, una configurazione intersoggettiva comunque strutturata non si mostra inadeguata a realizzare quella intercomunicazione orizzontale, promossa dalla praticabilità della rete e della tecnologia mobile, se usufruiti come prestazione?
Non è proprio in tale attività esperenziale dell’azione dell’uomo, esplicabile attraverso la e per mezzo di procedure in permanente modifica e alterazione - indici e realizzatrici della strada che si costruisce attraverso l’interazione reciproca tra il suo mobilitarsi e il fuori -, l’esigenza del richiamo alla storia?
Esigenza? Perché non definirla ultima spiaggia?
L’attuale, mi chiedo, dopo la lettura del saggio, già citato di Duque, nell’oblio del richiamo alla storia, oblio sebbene acquisito con atteggiamento sfrondato da ogni tragicità, e liquidatore di ogni idolo e del linguaggio fissato dalla scrittura, nel proporsi come meta <l’Unità di comunicazione di base>, non rende vivo quell’<ontologico-categoriale> che rende credibile l’oggettivazione dei nostri pensieri soggettivi?
Siamo post-moderni o il nostro essere altri, inconfondibili con i nostri predecessori, è pensato ed esercitato con quella mentalità apofantica del discorso credibile che ha presa sulle coscienze e sull’esistente?

Mi penso: se il voltar pagina, sfida dell’oggi, mette in moto meccanismi, in grado di predisporre il terreno per istituire nuovi statuti regolativi del nostro vivere, non è un continuare a morire, non sapendo di morire, legati ancora alla gregarità di un inconscio, collettivo ed individuale, riproduttivo di una immagine di morte civile come condizione di resurrezione futura?

Se togliamo lo sguardo dalle condizioni che segmentano la dinamica delle contingenze, quale superficie di iscrizioni delle varie emergenze dell’assestamento del posizionarsi dell’uomo in rapporto al suo spazio circostante, con le sue necessità e aspettative sentite, e lo indirizziamo al costrutto logico, epistemologico, linguistico dei vari saperi, contemplandone e commisurandone i loro sviluppi, non rende deviante la connessione e l’ìnterdipendenza tra i saperi e la società, terreno di provenienza e nello stesso tempo legame di reciprocità dei loro rispettivi effetti solventi?

Realismo ingenuo in riduzione psicologica? Mi dichiaro colpevole. Disattendo la norma tutelante il pensare oggettivo; norma, prima attivata dalla filosofia, assiomaticamente; poi, con la svolta scientifica, in postulato; fino ad ieri, col primato del linguaggio, come la forma necessaria affinché una preposizione possa mostrarsi dotata di senso. Mi chiedo soltanto da uomo senza qualità, la norma non è un intenzionato che rinvia ad un intenzionante?

Al prossimo soliloquio l’ulteriore esternazione

Franco Riccio

domenica 25 gennaio 2015

QUINDICESIMO SOLILOQUIO

Certi silenzi sollecitano in me un rifletterli, inducendomi ad una delucidazione della mia proposta.

Possibilità d’intesa non ha come centralità le tematiche che passo per passo vado svolgendo, proponendole propositive per un dialogo aperto, - esperienze già tentate. 
Esse sono riflessioni angolate, esternazioni del mio pensare soggettivo, espressamente provocatorie, miranti a sperimentare un percorso comunicativo tangenziale all’esperienza dell’oggi: possono essere ignorate o discusse  come possono alternarsi temi diversi; è una questione legata ad una scelta individuale.

La centralità della proposta, e per questo usufruisco di questo spazio, è la promozione di un pensare circolare basato sulla comparazione delle diverse angolature come altro di quel pensare gerarchico, per dirla con Derrida, attualizzante quella logica del pensare che produce rapporti di potere, analizzati da Foucault, ma già evidenziati da Adorno e compendiati in una breve frase che dice più di un’analisi dettagliata: <io so, tu no>; rapporti di potere attualizzati ancora oggi nel parlare tanto per parlare

Ho voluto creare questo spazio, mettendomi in gioco, per la qualità dello strumento di comunicazione: una occasione da non perdere.

Io continuo / non mi fermo / nel rischio e nella possibilità dell’errore è la fucina del cambiamento / il dire accreditato attualizza quell’io so, tu no.

Franco Riccio  

QUATTORDICESIMO SOLILOQUIO

Ha ben ragione Horkheimer / la sua valutazione pensosa, “paralizzata” nel testo-enunciato La nostalgia del Totalmente Altro, schiva la classificazione e il riconoscimento di un regime discorsivo come genere appartenente alla suddivisione dei <campi di appartenenza>, delineati, sia pure con un margine d’incertezza, in Qu’est-ce que la Philosophie? di Deleuze/Guattari / rilievo, il mio, non per sottolineare l’anomalia del <testo> di Horkheimer nei confronti del <testo> di Deleuze/Guattari, i quali rientrano, a buon diritto, nel mio travagliato patrimonio culturale / un rilievo per l’eventuale lettore, onde indirizzarlo, non nel giudizio che non sta nei miei pensieri, ma nel taglio del mio riflettere in un riflettermi in disposizione d’ascolto / un riflettere, nella mia intenzione (?!?), non ha alcuna referenza oggettiva di ordine  né speculativo né etico né estetico, anche se, per mestiere, mi servo dei loro registri, sebbene, con implicita convinzione che la posta in gioco sia tanto epistemologica che pratica oggi / posta in gioco, intensificata dalla nervatura connettiva dei problemi emergenti sia: in forza dell’estensione, direi planetaria, della tecnologia mobile che infrange la geografia fisica e politica dell’assetto mondiale e libera un pensare circolare; sia: per lo sviluppo della ricerca scientifica, estesa in ogni campo di uno scibile, e che rende sempre più problematica l’attività interpretativa dei problemi emergenti che dispiegano nuovi orizzonti / tale posta in gioco, pertanto, rende limitativo il contributo, teorico e pratico, elaborato da una disciplina che si avvale di uno statuto di esclusività.

Qui si innesta la mia scelta di pensare “oltre la letteratura”, mescolandone le “carte”; pertanto un pensare nell’imperfezione del pensare, in un uso impuro del linguaggio, con una pretesa: una esternazione pensosa come possibilità socializzante un vivere la nostra[R1]  erranza nella costruzione di spazi intercomunicativi di differenze che si confrontano nella costruzione di una estensione comunitaria non duplicativa e in mobilità di esperienze, esplicantesi attraverso l’autodeterminazione dei singoli.

La convergenza del parlare e del parlare sul serio intende sottolineare un voltar pagina, muovendo da un dire senza poetica, in propensione esplorativa di un rilievo dell’ininterrotto cicacitrarsi di una piaga, la quale è sociale in quanto è culturale ed è tale in quanto sociale – e da qui la difficoltà di essere inquadrato in un genere e l’incalzante esigenze di riflettere sull’indicazione progetto di Foucault.

Passato prossimo e presente disgiunti nelle loro configurazioni datate nella eterogeneità delle egemonie socio-economico-politico-culturali, legati dalla trasmissione epidemica di quella che Adorno rileva come ideologia della reificazione, attualizzandosi ieri e oggi, nel tramonto delle rispettive ideologie, in <réclame del mondo attraverso la sua duplicazione, e la menzogna provocatoria ingiunge il silenzio della dipendenza causale della cultura> (Prismi).

All’ingiunzione del silenzio, ed oggi alla tacita subordinazione al furviamento e inganno della  falsificazione del rapporto interattivo tra cultura e società, la sfida del dire – un dire, non réclame, ma un riflettere riflettendosi nell’ascolto.
In ciò risiede l’impronta, il carattere di un agire pensante / un agire, il quale, in accostamento parallelo con Derrida, <parlare è un fare esperienza di ciò che arriva alla parola attraverso la parola stessa>, ma è un parlare, il quale non si cristallizza <sotto la costrizione di “rapporto di cose logiche”>, mantenendo in vita il polo oggettivo del pensare a <fondamento del dominio nella realtà> (Adorno Metacritica ׀ qui Foucault, per me, incontra Adorno ׀), ma si interroga sulla spiegazione coerente pensata, aprendo in essa una rete di problemi in messaggio di ascolto che introducono un’attività esperenziale che si costruisce tutt’una col divenire incoativo dell’esperienza / incoativo, frattalità in moto erratico tra i possibili stati prevedibili (Stengers, La complessità), delineanti il rapsodico, non avvolgente in sé l’infinità del disordine (Nancy, Le discours de la syncope), ma la complessità di ogni suo possibile, e, in quanto tale, resistente al concetto.

Ed è qui che va posta la mia scelta del risveglio della memoria storica che ho intrapreso in questa nuova via di comunicazione e che continuerò in seguito (1), sospendendola ora perché è qui che entrano in mio ascolto le problematiche e gli interrogativi, sollevati da Marco Furia.

Riflettendoli nell’interrogarmi alla luce di quanto ho precedentemente ipotizzato, i miei pensieri associano e dissociano interrogativi che si dispongono non a fronte, ma a fianco dei suoi.

Non viviamo e cresciamo attraverso l’interazione di condizioni varie di esistenza, tali, come ha dimostrato la psicologia sociale, che l’individuo non è il soggetto unico del suo comportamento?
Nella consapevolezza della loro influenza non dovremmo trovare, proprio in tale contesto di interdipendenze, gli stimoli e le risposte?
Possiamo sfuggire, senza voler ridurre ad unica, l’influenza dell’assetto organizzativo di quello che dovrebbe essere il nostro “naturale” legame sociale?
La sua pressione selettiva non si mostra formativa del nostro agire pensante, sia in senso della conformità che della deviazione in relazione agli equilibri imposti dal suo regime? Il regime, anche il più aperto, nel suo formalizzarsi in normativa duplicativa del sociale, non spezza il rapporto paritario tra i consociati, distribuendoli in due piani, uno dei quali riservato agli associati, i quali, per diritto, governeranno; l’altro, per diritto, gli associati a essere governati?
L’evidenza è tale che rende inutile ogni riflessione. Ma, se la slittiamo e riviviamo in noi il processo culturale di apprendimento, psicologicamente incorporato, attraverso il quale abbiamo appreso la cultura, acquistato il ruolo, abbiamo costruito il nostro , abbiamo indossato l’”abito” del nostro agire pensante, la riflessione non può rappresentare un momento illuminante?
L’attimo? È stato oggetto di una mia riflessione nel mio lavoro Al termine, edito da “Anterem”. Una stilla: non sfugge al giudizio, se lo consideriamo, come a mio avviso dovremmo, nella sua singolarità, un per me? Singolarità incomparabile all’intuito che determina il pro-getto, in quanto è paragonabile a un getto, germoglio a “gemma nuda” senza protezione, come in botanica e che in Nietzsche si spiega come quell’<emozione materiale>, imparagonabile con l’emotività, energia per un pensare abissale? Non è la spinta che provoca l’inventività?
Libertà, desiderio dell’incondizionato, eppure non dobbiamo chiederci, mettendo in parentesi l’evidente repressione nei regimi totalitari e in ogni fondamentalismo, in ogni integralismo (oggi di moda), perché in ogni sua riconquista si trasforma in illibertà, la storia ci è maestra, o formale, com’è nella democrazia, esercitata attraverso il “numero” e la delega?
Non è motivo di riflessione ponderata?
Se evitassimo ogni mistica, in moda oggi, non dovremmo discutere sulla praticabilità di questo nostro desiderio insopprimibile, partendo, prima da noi? Non siamo nomadi in una terra errante? Quindi, dal fuori: il condizionamento non va tenuto in grande considerazione? Scetticismo o non accecamento? Rassegnazione o presa di coscienza della propria impossibilità per amore della sua possibilità? Perché non riflettiamo su quest’ultima considerazione, con la quale Adorno chiude i suoi Minima moralia? La sfida alla democrazia formale e al nichilismo e terrorismo, entrambi ideologici, proprio per questo nostro desiderio insopprimibile e per la consapevolezza della sua impossibilità, non richiede una presa di posizione che non miri all’alternativa, ma a creare spazi sociali, costruiti, passo per passo, tangenziali all’apparato formale, a promuovere orizzontalmente, in un intercomunicazione di base, condizioni che inducano all’autodeterminazione individuali in interazione con forme di autogestione della relazione intersoggettiva? E ciò consapevoli di non essere mai la meta finale, ma sempre un ricominciare dall’inizio, coerenti alla transitorietà del nostro vivere in questa terra, nostra unica madre?

(1) rimando al XVI sol.)







 Franco Riccio

martedì 20 gennaio 2015

TREDICESIMO SOLILOQUIO

Riattivo il mio dire interrogante a partire dal nocciolo in sospensione dell’indicazione/progetto dello “staccare” <il potere della verità dalle forme di egemonia sociale, economica, culturale all’interno delle quali funziona> (Foucault).

Nocciolo in sospensione: una espressione non casuale, la mia / indicativa di un turbamento che impegna il mio rifletterla / lontano da ogni intento interpretativo, il mio dilemma, anomalo in sé: debitore della spinta a rifletterla proprio nell’intento condivisibile che centralizza l’obiettivo da disattivare: la verità.

Riconoscibilità, cioè, di una identificazione di una centralità che eccede ogni condizione soggettiva, in quanto datità che ha significato in se stessa, in funzione del quale induce effetti di potere attraverso i quali si riproduce:
centralità eccedente ogni filtrazione di natura soggettiva:

il problema – e il riflettere senza voler determinare rischia di produrre la sua poetica all’interno dell’unità del suo nome / rischio da correre.

Non sta in tale centralità la fertilità d’ingegno dell’uomo? Non è in essa la fonte d’origine e di sviluppo della nostra cultura? Non dobbiamo, a ragion voluta, cercare in essa il problema sollevato da Foucault?
Reità manifesta, la mia / ibrida miscellanea di ontologismo e psicologismo che l’unità del nome respinge / non ne chiedo assoluzione: mi interrogo: sospendere o negare il protagonismo dell’ingegno dell’uomo, che ancora oggi il Mobil Age testimonia, non è attualizzare quel feticismo della cultura che ha istituito, e quindi ontologizzato, come quel luogo entro il quale gli uomini si collocano? Nessuna filosofia, scienza in tutte le sue varianti, teologia, linguaggio <si è mai esaurita in se stessa…secondo il suo essere in sé, sempre sono state in rapporto con il reale processo della vita della società da cui si separavano> (Adorno, Prismi).
Rileggendo l’enunciato di Adorno in chiave genealogica non viene a testimoniarsi una condizione, che l’ideologia oscura, legata al nostro status di uomini, in quanto inflessione cadenzante disgiunzioni individuali, bio-concatenazioni delineanti frattalmente il versificarsi dell’agire pensante del nostro transitorio vivere? Non è questa la nostra unica via di progettazione e di comunicazione?
In tale ottica interrogo interrogandomi sulla centralità di quel nome che la tradizione ci ha trasmesso con il termine verità.

***
Centralità  – e qui mi aiuta Derrida (Posizioni) – non implica indipendenza: sia da ogni perturbamento proveniente dal quotidiano vivere che fa del filosofo, dello scienziato, dello statista uomo come lo siamo tutti; sia rispetto <a un sistema di significanti>? non rivela, pertanto, uno status indefinibile e inesprimibile, invariante nella sua funzione preposizionale? Status, in base al quale, nelle varianti del peregrinare errante degli uomini, nell’alternanza incoerente <delle energie e dei cedimenti, delle sommità e dei crolli, dei veleni e degli antidoti> (Nietzsche, Il viandante e la sua ombra), rinvigorisce la sua energia climatizzante l’ondeggiamento incoativo del rapporto uomo e il suo mondo circostante, nella sua duplice valenza: fisico e sociale? / una presenza autosvelantesi nel rapsodico, mi direbbe Heidegger, e dovrei zittirmi? / noi oggi, in rammemorazione interiorizzante, per dirla con Lacan, non continuiamo ad esprimerla con quel nome indicibile, verità, sfuggendo come sempre alla sua definizione, piegando la versione positiva di quella presenza in negativo, in quanto in essa viene a rilevarsi, nella tendenza odierna, il persistere dell’<interconnessione onnimoda di tutte le procedure (almeno a livello di software) in una rete comune, costituita proprio da differenze in costante mobilità>? (F. Duque, L’età è mobile, qual cella al vento, in “Anterem”).
  
Ammissione provocante in me l’esigenza di interrogarmi, riflettendola alla luce dell’indicazione/progetto di Foucault.

L’interconnessione onnimodo non esprime in attualità quel rapporto semantico implicito nell’indicibilità di quel nome, disinteressato in atto, ma mai perduto nel nostro inconscio, per pedagogica trasfusione? / non traluce nel nostro agire pensante in ogni occasione nel momento in cui oggettiviamo i nostri pensieri soggettivi? / non è proprio in tale oggettivazione la connessione, qualunque sia la variante linguistica, tra la parola e la cosa? Ontologia positiva e ontologia negativa, così come altro del pensiero sia desiderio sia rete, in quanto oggettivazione di una soggettività, sia pure di talento, non si baciano?

Allora, il problema della separazione tra verità e le varie egemonie non chiude il problema; al contrario non lo dilata? Non è questo il suggerimento di Foucault, in chiusura dell’intervista, riportata nel testo citato, dell’indispensabilità del ricorso al contributo di Nietzsche?
Non è stato Nietzsche a voltar le spalle ad una critica della ragione, cioè ai  modelli storici attraverso i quali si è ipostatizzata come verità e porre l’accento su quell’elemento, l’intessuto, tramandato come verità? Intessuto, nel suo linguaggio, non esprime quello che lui nomina grammatica non linguistica della ragion? l’idolo, del quale <non ci sbarazzeremo perché crediamo ancora alla grammatica> (Crepuscolo degli idoli. La “Ragione” Nnella Filosofia)? non è riscontrabile in tale intessuto, l’ipotizzato da Frege come il legame indispensabile per salvaguardare l’oggettività dei pensieri (cfr. C. Penco, Frege tra logica e poesia, in “Anterem”)?  

Tale spostamento d’accento non squarcia altri interrogativi che aprono ulteriori spazi di riflessioni per capire e capirci proprio in questo travagliato momento del nostro vivere? e, quindi, approfondire ed interrogarci, se oltre le causalità leggibili della crisi economica che subiamo, c’è un morbo che infetta il nostro modo di pensare? Perché Nietzsche, nella Gaia scienza, mette sulle labbra dell’uomo folle, annunciante la morte di Dio, interrogativi sull’alterazione del rapporto uomo e il suo mondo circostante, sino ad arrivare all’assassinio? Non sono nostri quegli interrogativi? <Non è il nostro un eterno precipitare?> <Esiste ancora un alto e un basso?> <Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?>…e si sfiatano gli uomini che si definiscono Stato a reclamare riforme e rivoluzioni culturali / blasfemi mentitori con se stessi e il cui straparlare è l’esca per attirarci in loro balia / noi appendici del nostro stesso diritto del vivere in dignità il nostro tragitto / spettatori passivi per diritto di uno spettacolo i cui protagonisti per diritto daranno vita ad un nuovo Presidente della Repubblica / scene già viste da film “panettone” / ogni testa “normativa” ha un proprio presidente…e qui le liti, i compromessi, i franchi tiratori e…, ma quello che mi fa rabbia e offende la nostra intelligenza e sensibilità è l’enfatismo declamatorio dei navigatori della rete del diritto usurpato ai cittadini: navigatori messaggeri di un anti..non so di che cosa…,  in quanto la contrapposizione passa attraverso l’accettazione e l’impiego normativo dei contestati…ai vecchi pastori subentrano i nuovi pastori, abilitati per diritto a governare noi, gregge per diritto da sempre e beffati dalla delega che per diritto ci istituisce appendici della nostra stessa dignità di uomini.


 – nausea e disgusto…continuerò a parlare, ma a parlare sul serio, nel prossimo soliloquio.
Franco Riccio 

giovedì 15 gennaio 2015

DODICESIMO SOLILOQUIO

Adorno, il realismo reificante / denuncia e cecità argormentativa consequenziale non rispecchiante, in tutte le “modernità”, le quali hanno dato nome al corso degli eventi, nella latitanza di un potere pubblico, geograficamente generalizzato, mirato alla sussistenza dei suoi equilibri, il perpetuarsi in quelle nuove radici la serie di cicatrici, prodotte dalla pianta madre, logorante per Habermas, ma già deformanti per Adorno, la relazione sociale: un fotogramma per riallacciarmi al precedente soliloquio.

Limite dei vari saperi? Snaturante procedura della forza suadente della parola, legittimante l’onestà di Elena (Gorgia, Encomio di Elena), per <l’universalità dei pensieri, come la sviluppa la logica discorsiva, il dominio nella sfera del concetto, il quale si erge sul fondamento del dominio sulla realtà> (Adorno, Metacritica)? Eppure, questa parola non la riscontriamo rinnovata nel discorso fissato dalla scrittura, in quanto, in quella operazione tecnica di linguaggio (il testo) <viene a inscriversi nelle lettere di ciò che vuol dire il discorso> (Ricoeur. Che cosa è un testo?)? non è viva in un oggi, attestante la realizzabilità di una intercomunicazione di base, grazie all’inventibilità dell’uomo di una tecnologia mobile, mediante la quale il <parlare è un fare esperienza di ciò che arriva alla parola attraverso la parola stessa> (Habermas), nella confezione di statuto di giudizio?

Una comparazione tra le tre argomentazioni, avendo in mente la trasformazione metodologica nell’analisi del discorso, operata dal positivismo logico: quella parola, logos della metafisica, non assume nella trasformazione la medesima funzione preposizionale come garante della “correttezza” del discorso, qualunque sia il genere e il codice linguistico, in modo che esso venga considerato “realistico” e non “poetico”, tale da essere accettabile o contestabile?
Non siamo in linea con la tradizione, in quanto forma grammaticale dell’asserto, e, come tale, non assume la funzione pedagogica per possibili comportamenti del nostro agire pensante?
Non vengono in tal modo a installarsi nel comportamento di ogni individuo, a partire dalla più tenera età (ambiente, famiglia, scuola), le “certezze”, le quali assumono il carattere di una propagazione epidemica, grazie al rumore babelico dell’informazione e i suoi protocolli messi in atto da una società grammaticalmente acculturata? Una informazione, pertanto, che, al di là della diversità della forma e della tematica, utilizza, nell’oggettivazione argomentativa, una forma inclusiva/comunicativa, quindi, retorica e apologetica, pur contestandola?
Non è, quindi, una rigenerazione di uno scolpire in noi quella conformazione, non di pensiero, ma del pensare, istruito attraverso una struttura psichica indotta ad agire pensando <in certe prevedibili maniere>, funzionali per il <mantenimento (o lo) sviluppo (di una determinata) forma di organizzazione umana> (A.I. Hallowell, 1953, Culture, personality, and society)?

Mettere in luce tale distinzione / distogliere il nostro riflettere sulle qualità,  e quindi, sulle forme che  il pensiero, storicamente (Ragione/Intelletto, Ragione inclusiva/strumentale, Ragione soggettocentrica/comunicativa), ha assunto attraverso formulazioni argomentative, elaborate dalle varie egemonie culturali /e, in diversità non antitetica, riflettere sul come pensiamo, attirandoci tutta l’ira dei gestori e burocrati del sapere: è un atto di arbitrio? O una trasgressione socioculturale per un voler capire per capirci di quale carattere è la istruzione del nostro agire pensante, lasciandoci alle spalle la distinzione perniciosa della costruzione culturale, operata sia dal razionalismo sia dall’empirismo, per trovarla poi composita nella sintesi a priori di un Io trascendentale o per ritrovarla implicita nelle varie revisioni culturali del kantismo?
Pensiero non è l’intelligenza senza attributi qualificativi che ogni singolo uomo possiede sin dalla nascita?
Pensare non è un disegno architettonico, in impronta genealogica, di una sua depurazione da ogni contaminazione da ogni influsso immaginativo ed emozionale? Il conflitto delle facoltà non è presente in Kant? Non gli fornisce gli elementi per il suo superamento nella sintesi apriori? Non è questa operazione una oggettivazione di una soggettività, sia pure elaborata a condizione trascendentale?  
Conformazione, quindi, adattabile in ogni clichè filosofico, scientifico, politico, teologico e via di seguito sino ad arrivare al comunicare di ogni uomo? Pertanto, abito mentale del nostro comportamento?
Scrive Jay, e lo pongo all’attenzione per un riflettere comparativo, in L’immaginazione dialettica, <l’intellettuale è sempre impegnato in un’azione simbolica che implica l’oggettivazione del suo pensiero in vari modi>. L’intellettuale? Perché, non il politico? L’uomo del quotidiano?

Un incalzante interrogativo mi sprona a chiedermi: una riflessione sui saperi, rilevarne o il loro regime dispositivo attraverso il quale lascia circolare fra i suoi vari enunciati effetti di potere ׀ domanda che avrei voluto comporre a Foucault per il suo condivisibile propositivo, espresso in Microfica del potere: <non si tratta di affrancare la verità da ogni sistema di potere…ma di staccare il potere della verità dalle (varie) egemonie> ׀ o i loro limiti, riconducibili ad una loro autocostruzione dei loro piani d’intervento, differenziati nelle pratiche e nelle finalità, non si corre il rischio di attualizzare una proprietà che non posseggono, cioè l’essere?

Mia dissociazione psichica? Riflettendomi, si / effettuo l’ esperienza del mio vivere nella franchezza della doppiezza del mio agire pensante: il testo con le sue verità, sanzionante la storia appassionante di una dimensione processuale che traluce le speculazioni, i conflitti, lo scarto tra proposizioni immaginative e proposizioni che si rispecchiano nell’ordine logico dei vari saperi, nella referenza dei loro settori di appartenenza e sia nel <vecchio mestiere> (Pavese) dell’affrontare il quotidiano e la cui <sventura ci fa perdere il tempo e il mondo> (Blanchot).

Mio schema mentale assimilato ed adattato nel travaglio situazionale tra il razionale e il normativo / mio? / sociale in reciproca interattività di contagio a tal punto che, nel rispecchiarmi nell’altro straniero, avverto il suo richiamo alla mia estraneità (Jabès)? / responsabilità dei saperi? Si, ma nel loro effetto solvente, il quale nel sociale viene considerato una sorta di termine ad quem.
Ma, se liberiamo i sapere dall’interrogativo che cosa sono, il nervo metafisico della domanda, e lo poniamo sui reali protagonisti dei vari saperi, cioè filosofi, scienziati, politologi, economisti, teologi e tutti quelli, per farla breve, che esprimono la cultura del momento, con i loro interessi, le ambizioni, le pretese (Stengers) e soprattutto con schemi mentali assorbiti per scuola e adattati nell’input dell’insorgenza di emergenze sotto il segno della sospensione, chi è il responsabile?

Qui mi si aprono e si intrecciano una serie di interrogativi che investono sia le diversità egemoniche configurativi del nostro comportamento socioindividuale sia il comportamento in quanto tale.
Interrogativi, per i quali il risveglio della nostra memoria storica si rende più che mai indispensabile, ripeto, per un capire intenzionato a un capirci.


Chiudo, per riprenderli, distinti, nei prossimi soliloqui.
Franco Riccio