domenica 25 gennaio 2015

QUATTORDICESIMO SOLILOQUIO

Ha ben ragione Horkheimer / la sua valutazione pensosa, “paralizzata” nel testo-enunciato La nostalgia del Totalmente Altro, schiva la classificazione e il riconoscimento di un regime discorsivo come genere appartenente alla suddivisione dei <campi di appartenenza>, delineati, sia pure con un margine d’incertezza, in Qu’est-ce que la Philosophie? di Deleuze/Guattari / rilievo, il mio, non per sottolineare l’anomalia del <testo> di Horkheimer nei confronti del <testo> di Deleuze/Guattari, i quali rientrano, a buon diritto, nel mio travagliato patrimonio culturale / un rilievo per l’eventuale lettore, onde indirizzarlo, non nel giudizio che non sta nei miei pensieri, ma nel taglio del mio riflettere in un riflettermi in disposizione d’ascolto / un riflettere, nella mia intenzione (?!?), non ha alcuna referenza oggettiva di ordine  né speculativo né etico né estetico, anche se, per mestiere, mi servo dei loro registri, sebbene, con implicita convinzione che la posta in gioco sia tanto epistemologica che pratica oggi / posta in gioco, intensificata dalla nervatura connettiva dei problemi emergenti sia: in forza dell’estensione, direi planetaria, della tecnologia mobile che infrange la geografia fisica e politica dell’assetto mondiale e libera un pensare circolare; sia: per lo sviluppo della ricerca scientifica, estesa in ogni campo di uno scibile, e che rende sempre più problematica l’attività interpretativa dei problemi emergenti che dispiegano nuovi orizzonti / tale posta in gioco, pertanto, rende limitativo il contributo, teorico e pratico, elaborato da una disciplina che si avvale di uno statuto di esclusività.

Qui si innesta la mia scelta di pensare “oltre la letteratura”, mescolandone le “carte”; pertanto un pensare nell’imperfezione del pensare, in un uso impuro del linguaggio, con una pretesa: una esternazione pensosa come possibilità socializzante un vivere la nostra[R1]  erranza nella costruzione di spazi intercomunicativi di differenze che si confrontano nella costruzione di una estensione comunitaria non duplicativa e in mobilità di esperienze, esplicantesi attraverso l’autodeterminazione dei singoli.

La convergenza del parlare e del parlare sul serio intende sottolineare un voltar pagina, muovendo da un dire senza poetica, in propensione esplorativa di un rilievo dell’ininterrotto cicacitrarsi di una piaga, la quale è sociale in quanto è culturale ed è tale in quanto sociale – e da qui la difficoltà di essere inquadrato in un genere e l’incalzante esigenze di riflettere sull’indicazione progetto di Foucault.

Passato prossimo e presente disgiunti nelle loro configurazioni datate nella eterogeneità delle egemonie socio-economico-politico-culturali, legati dalla trasmissione epidemica di quella che Adorno rileva come ideologia della reificazione, attualizzandosi ieri e oggi, nel tramonto delle rispettive ideologie, in <réclame del mondo attraverso la sua duplicazione, e la menzogna provocatoria ingiunge il silenzio della dipendenza causale della cultura> (Prismi).

All’ingiunzione del silenzio, ed oggi alla tacita subordinazione al furviamento e inganno della  falsificazione del rapporto interattivo tra cultura e società, la sfida del dire – un dire, non réclame, ma un riflettere riflettendosi nell’ascolto.
In ciò risiede l’impronta, il carattere di un agire pensante / un agire, il quale, in accostamento parallelo con Derrida, <parlare è un fare esperienza di ciò che arriva alla parola attraverso la parola stessa>, ma è un parlare, il quale non si cristallizza <sotto la costrizione di “rapporto di cose logiche”>, mantenendo in vita il polo oggettivo del pensare a <fondamento del dominio nella realtà> (Adorno Metacritica ׀ qui Foucault, per me, incontra Adorno ׀), ma si interroga sulla spiegazione coerente pensata, aprendo in essa una rete di problemi in messaggio di ascolto che introducono un’attività esperenziale che si costruisce tutt’una col divenire incoativo dell’esperienza / incoativo, frattalità in moto erratico tra i possibili stati prevedibili (Stengers, La complessità), delineanti il rapsodico, non avvolgente in sé l’infinità del disordine (Nancy, Le discours de la syncope), ma la complessità di ogni suo possibile, e, in quanto tale, resistente al concetto.

Ed è qui che va posta la mia scelta del risveglio della memoria storica che ho intrapreso in questa nuova via di comunicazione e che continuerò in seguito (1), sospendendola ora perché è qui che entrano in mio ascolto le problematiche e gli interrogativi, sollevati da Marco Furia.

Riflettendoli nell’interrogarmi alla luce di quanto ho precedentemente ipotizzato, i miei pensieri associano e dissociano interrogativi che si dispongono non a fronte, ma a fianco dei suoi.

Non viviamo e cresciamo attraverso l’interazione di condizioni varie di esistenza, tali, come ha dimostrato la psicologia sociale, che l’individuo non è il soggetto unico del suo comportamento?
Nella consapevolezza della loro influenza non dovremmo trovare, proprio in tale contesto di interdipendenze, gli stimoli e le risposte?
Possiamo sfuggire, senza voler ridurre ad unica, l’influenza dell’assetto organizzativo di quello che dovrebbe essere il nostro “naturale” legame sociale?
La sua pressione selettiva non si mostra formativa del nostro agire pensante, sia in senso della conformità che della deviazione in relazione agli equilibri imposti dal suo regime? Il regime, anche il più aperto, nel suo formalizzarsi in normativa duplicativa del sociale, non spezza il rapporto paritario tra i consociati, distribuendoli in due piani, uno dei quali riservato agli associati, i quali, per diritto, governeranno; l’altro, per diritto, gli associati a essere governati?
L’evidenza è tale che rende inutile ogni riflessione. Ma, se la slittiamo e riviviamo in noi il processo culturale di apprendimento, psicologicamente incorporato, attraverso il quale abbiamo appreso la cultura, acquistato il ruolo, abbiamo costruito il nostro , abbiamo indossato l’”abito” del nostro agire pensante, la riflessione non può rappresentare un momento illuminante?
L’attimo? È stato oggetto di una mia riflessione nel mio lavoro Al termine, edito da “Anterem”. Una stilla: non sfugge al giudizio, se lo consideriamo, come a mio avviso dovremmo, nella sua singolarità, un per me? Singolarità incomparabile all’intuito che determina il pro-getto, in quanto è paragonabile a un getto, germoglio a “gemma nuda” senza protezione, come in botanica e che in Nietzsche si spiega come quell’<emozione materiale>, imparagonabile con l’emotività, energia per un pensare abissale? Non è la spinta che provoca l’inventività?
Libertà, desiderio dell’incondizionato, eppure non dobbiamo chiederci, mettendo in parentesi l’evidente repressione nei regimi totalitari e in ogni fondamentalismo, in ogni integralismo (oggi di moda), perché in ogni sua riconquista si trasforma in illibertà, la storia ci è maestra, o formale, com’è nella democrazia, esercitata attraverso il “numero” e la delega?
Non è motivo di riflessione ponderata?
Se evitassimo ogni mistica, in moda oggi, non dovremmo discutere sulla praticabilità di questo nostro desiderio insopprimibile, partendo, prima da noi? Non siamo nomadi in una terra errante? Quindi, dal fuori: il condizionamento non va tenuto in grande considerazione? Scetticismo o non accecamento? Rassegnazione o presa di coscienza della propria impossibilità per amore della sua possibilità? Perché non riflettiamo su quest’ultima considerazione, con la quale Adorno chiude i suoi Minima moralia? La sfida alla democrazia formale e al nichilismo e terrorismo, entrambi ideologici, proprio per questo nostro desiderio insopprimibile e per la consapevolezza della sua impossibilità, non richiede una presa di posizione che non miri all’alternativa, ma a creare spazi sociali, costruiti, passo per passo, tangenziali all’apparato formale, a promuovere orizzontalmente, in un intercomunicazione di base, condizioni che inducano all’autodeterminazione individuali in interazione con forme di autogestione della relazione intersoggettiva? E ciò consapevoli di non essere mai la meta finale, ma sempre un ricominciare dall’inizio, coerenti alla transitorietà del nostro vivere in questa terra, nostra unica madre?

(1) rimando al XVI sol.)







 Franco Riccio

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