Ha ben
ragione Horkheimer / la sua valutazione pensosa, “paralizzata” nel testo-enunciato La nostalgia del Totalmente Altro, schiva la classificazione e il
riconoscimento di un regime discorsivo
come genere appartenente alla suddivisione
dei <campi di appartenenza>, delineati, sia pure con un margine
d’incertezza, in Qu’est-ce que la Philosophie ? di
Deleuze/Guattari / rilievo, il mio, non per sottolineare l’anomalia del <testo> di Horkheimer nei confronti del
<testo> di Deleuze/Guattari, i quali rientrano, a buon diritto, nel mio
travagliato patrimonio culturale / un rilievo per l’eventuale lettore, onde
indirizzarlo, non nel giudizio che
non sta nei miei pensieri, ma nel taglio
del mio riflettere in un riflettermi in disposizione d’ascolto /
un riflettere, nella mia intenzione
(?!?), non ha alcuna referenza oggettiva
di ordine né speculativo né etico né
estetico, anche se, per mestiere, mi servo dei loro registri, sebbene, con implicita convinzione che la posta in gioco
sia tanto epistemologica che pratica oggi
/ posta in gioco, intensificata dalla nervatura connettiva dei problemi
emergenti sia: in forza dell’estensione, direi planetaria, della tecnologia
mobile che infrange la geografia fisica e politica dell’assetto mondiale e
libera un pensare circolare; sia: per lo sviluppo della ricerca scientifica,
estesa in ogni campo di uno scibile, e che rende sempre più problematica
l’attività interpretativa dei problemi emergenti che dispiegano nuovi orizzonti
/ tale posta in gioco, pertanto, rende limitativo il contributo, teorico e
pratico, elaborato da una disciplina
che si avvale di uno statuto di
esclusività.
Qui si
innesta la mia scelta di pensare “oltre
la letteratura”, mescolandone le “carte”; pertanto un pensare nell’imperfezione del pensare, in un uso impuro del linguaggio, con una pretesa: una esternazione pensosa come
possibilità socializzante un vivere la
nostra[R1] erranza nella costruzione di spazi intercomunicativi di differenze che si
confrontano nella costruzione di una estensione comunitaria non duplicativa e
in mobilità di esperienze, esplicantesi attraverso
l’autodeterminazione dei singoli.
La
convergenza del parlare e del parlare sul serio intende sottolineare
un voltar pagina, muovendo da un dire senza poetica, in propensione esplorativa di un rilievo
dell’ininterrotto cicacitrarsi di una piaga,
la quale è sociale in quanto è culturale ed è tale in quanto sociale –
e da qui la difficoltà di essere inquadrato in un genere e l’incalzante esigenze di riflettere sull’indicazione progetto di Foucault.
Passato prossimo e presente disgiunti nelle loro configurazioni datate nella
eterogeneità delle egemonie socio-economico-politico-culturali, legati dalla
trasmissione epidemica di quella che Adorno rileva come ideologia della reificazione, attualizzandosi ieri e oggi, nel tramonto
delle rispettive ideologie, in
<réclame del mondo attraverso la sua duplicazione, e la menzogna
provocatoria ingiunge il silenzio della dipendenza causale della cultura> (Prismi).
All’ingiunzione del silenzio, ed oggi alla
tacita subordinazione al furviamento e inganno della falsificazione del rapporto interattivo tra cultura e società, la sfida del dire
– un dire, non réclame, ma un riflettere riflettendosi nell’ascolto.
In ciò
risiede l’impronta, il carattere di un agire pensante / un agire,
il quale, in accostamento parallelo con Derrida, <parlare è un fare
esperienza di ciò che arriva alla parola attraverso la parola stessa>, ma è
un parlare, il quale non si cristallizza <sotto la costrizione di “rapporto
di cose logiche”>, mantenendo in vita il polo
oggettivo del pensare a <fondamento del dominio nella realtà> (Adorno
Metacritica ׀ qui Foucault, per me, incontra Adorno ׀), ma si interroga sulla
spiegazione coerente pensata, aprendo in essa una rete di problemi in messaggio
di ascolto che introducono un’attività esperenziale che si costruisce tutt’una
col divenire incoativo dell’esperienza / incoativo, frattalità in moto erratico
tra i possibili stati prevedibili (Stengers, La complessità), delineanti il rapsodico,
non avvolgente in sé l’infinità del disordine (Nancy, Le discours de la syncope), ma la complessità di ogni suo possibile, e, in quanto tale, resistente
al concetto.
Ed è qui
che va posta la mia scelta del risveglio della memoria storica che ho
intrapreso in questa nuova via di comunicazione e che continuerò in seguito
(1), sospendendola ora perché è qui che entrano in mio ascolto le problematiche
e gli interrogativi, sollevati da Marco Furia.
Riflettendoli
nell’interrogarmi alla luce di quanto ho precedentemente ipotizzato, i miei pensieri associano e dissociano interrogativi che si dispongono non a fronte, ma a fianco dei suoi.
Non
viviamo e cresciamo attraverso l’interazione di condizioni varie di esistenza,
tali, come ha dimostrato la psicologia sociale, che l’individuo non è il
soggetto unico del suo comportamento?
Nella
consapevolezza della loro influenza non dovremmo trovare, proprio in tale
contesto di interdipendenze, gli stimoli e le risposte?
Possiamo
sfuggire, senza voler ridurre ad unica, l’influenza dell’assetto organizzativo
di quello che dovrebbe essere il nostro “naturale” legame sociale?
La sua
pressione selettiva non si mostra formativa del nostro agire pensante, sia in
senso della conformità che della deviazione in relazione agli equilibri
imposti dal suo regime? Il regime, anche il più aperto, nel suo
formalizzarsi in normativa duplicativa del sociale, non spezza il rapporto
paritario tra i consociati, distribuendoli in due piani, uno dei quali
riservato agli associati, i quali, per diritto, governeranno; l’altro, per diritto, gli associati a essere governati?
L’evidenza
è tale che rende inutile ogni riflessione. Ma, se la slittiamo e riviviamo in
noi il processo culturale di apprendimento, psicologicamente incorporato,
attraverso il quale abbiamo appreso la cultura, acquistato il ruolo, abbiamo
costruito il nostro sé, abbiamo
indossato l’”abito” del nostro agire pensante, la riflessione non può
rappresentare un momento illuminante?
L’attimo? È stato oggetto di una mia riflessione
nel mio lavoro Al termine, edito da “Anterem”. Una stilla: non sfugge al
giudizio, se lo consideriamo, come a mio avviso dovremmo, nella sua singolarità, un per me? Singolarità
incomparabile all’intuito che
determina il pro-getto, in quanto è paragonabile
a un getto, germoglio a “gemma nuda” senza protezione, come in botanica e che
in Nietzsche si spiega come quell’<emozione materiale>, imparagonabile
con l’emotività, energia per un pensare abissale? Non è la spinta che provoca l’inventività?
Libertà,
desiderio dell’incondizionato, eppure
non dobbiamo chiederci, mettendo in parentesi l’evidente repressione nei regimi
totalitari e in ogni fondamentalismo, in ogni integralismo (oggi di moda),
perché in ogni sua riconquista si trasforma in illibertà, la storia ci è maestra, o formale, com’è nella democrazia, esercitata attraverso il “numero”
e la delega?
Non è motivo di riflessione ponderata?
Se evitassimo ogni mistica,
in moda oggi, non dovremmo discutere sulla praticabilità
di questo nostro desiderio insopprimibile, partendo, prima da noi? Non
siamo nomadi in una terra errante? Quindi, dal fuori: il condizionamento non va tenuto
in grande considerazione? Scetticismo o non accecamento? Rassegnazione o presa
di coscienza della propria impossibilità
per amore della sua possibilità?
Perché non riflettiamo su quest’ultima considerazione, con la quale Adorno
chiude i suoi Minima moralia? La sfida alla democrazia formale e al
nichilismo e terrorismo, entrambi ideologici, proprio per questo nostro
desiderio insopprimibile e per la consapevolezza della sua impossibilità, non
richiede una presa di posizione che
non miri all’alternativa, ma a creare
spazi sociali, costruiti, passo per passo, tangenziali all’apparato formale, a promuovere orizzontalmente, in un intercomunicazione di base,
condizioni che inducano all’autodeterminazione
individuali in interazione con forme di autogestione della relazione intersoggettiva? E ciò consapevoli di non essere mai la meta finale, ma sempre un ricominciare
dall’inizio, coerenti alla transitorietà
del nostro vivere in questa terra,
nostra unica madre?
(1) rimando al XVI sol.)
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