giovedì 15 gennaio 2015

DODICESIMO SOLILOQUIO

Adorno, il realismo reificante / denuncia e cecità argormentativa consequenziale non rispecchiante, in tutte le “modernità”, le quali hanno dato nome al corso degli eventi, nella latitanza di un potere pubblico, geograficamente generalizzato, mirato alla sussistenza dei suoi equilibri, il perpetuarsi in quelle nuove radici la serie di cicatrici, prodotte dalla pianta madre, logorante per Habermas, ma già deformanti per Adorno, la relazione sociale: un fotogramma per riallacciarmi al precedente soliloquio.

Limite dei vari saperi? Snaturante procedura della forza suadente della parola, legittimante l’onestà di Elena (Gorgia, Encomio di Elena), per <l’universalità dei pensieri, come la sviluppa la logica discorsiva, il dominio nella sfera del concetto, il quale si erge sul fondamento del dominio sulla realtà> (Adorno, Metacritica)? Eppure, questa parola non la riscontriamo rinnovata nel discorso fissato dalla scrittura, in quanto, in quella operazione tecnica di linguaggio (il testo) <viene a inscriversi nelle lettere di ciò che vuol dire il discorso> (Ricoeur. Che cosa è un testo?)? non è viva in un oggi, attestante la realizzabilità di una intercomunicazione di base, grazie all’inventibilità dell’uomo di una tecnologia mobile, mediante la quale il <parlare è un fare esperienza di ciò che arriva alla parola attraverso la parola stessa> (Habermas), nella confezione di statuto di giudizio?

Una comparazione tra le tre argomentazioni, avendo in mente la trasformazione metodologica nell’analisi del discorso, operata dal positivismo logico: quella parola, logos della metafisica, non assume nella trasformazione la medesima funzione preposizionale come garante della “correttezza” del discorso, qualunque sia il genere e il codice linguistico, in modo che esso venga considerato “realistico” e non “poetico”, tale da essere accettabile o contestabile?
Non siamo in linea con la tradizione, in quanto forma grammaticale dell’asserto, e, come tale, non assume la funzione pedagogica per possibili comportamenti del nostro agire pensante?
Non vengono in tal modo a installarsi nel comportamento di ogni individuo, a partire dalla più tenera età (ambiente, famiglia, scuola), le “certezze”, le quali assumono il carattere di una propagazione epidemica, grazie al rumore babelico dell’informazione e i suoi protocolli messi in atto da una società grammaticalmente acculturata? Una informazione, pertanto, che, al di là della diversità della forma e della tematica, utilizza, nell’oggettivazione argomentativa, una forma inclusiva/comunicativa, quindi, retorica e apologetica, pur contestandola?
Non è, quindi, una rigenerazione di uno scolpire in noi quella conformazione, non di pensiero, ma del pensare, istruito attraverso una struttura psichica indotta ad agire pensando <in certe prevedibili maniere>, funzionali per il <mantenimento (o lo) sviluppo (di una determinata) forma di organizzazione umana> (A.I. Hallowell, 1953, Culture, personality, and society)?

Mettere in luce tale distinzione / distogliere il nostro riflettere sulle qualità,  e quindi, sulle forme che  il pensiero, storicamente (Ragione/Intelletto, Ragione inclusiva/strumentale, Ragione soggettocentrica/comunicativa), ha assunto attraverso formulazioni argomentative, elaborate dalle varie egemonie culturali /e, in diversità non antitetica, riflettere sul come pensiamo, attirandoci tutta l’ira dei gestori e burocrati del sapere: è un atto di arbitrio? O una trasgressione socioculturale per un voler capire per capirci di quale carattere è la istruzione del nostro agire pensante, lasciandoci alle spalle la distinzione perniciosa della costruzione culturale, operata sia dal razionalismo sia dall’empirismo, per trovarla poi composita nella sintesi a priori di un Io trascendentale o per ritrovarla implicita nelle varie revisioni culturali del kantismo?
Pensiero non è l’intelligenza senza attributi qualificativi che ogni singolo uomo possiede sin dalla nascita?
Pensare non è un disegno architettonico, in impronta genealogica, di una sua depurazione da ogni contaminazione da ogni influsso immaginativo ed emozionale? Il conflitto delle facoltà non è presente in Kant? Non gli fornisce gli elementi per il suo superamento nella sintesi apriori? Non è questa operazione una oggettivazione di una soggettività, sia pure elaborata a condizione trascendentale?  
Conformazione, quindi, adattabile in ogni clichè filosofico, scientifico, politico, teologico e via di seguito sino ad arrivare al comunicare di ogni uomo? Pertanto, abito mentale del nostro comportamento?
Scrive Jay, e lo pongo all’attenzione per un riflettere comparativo, in L’immaginazione dialettica, <l’intellettuale è sempre impegnato in un’azione simbolica che implica l’oggettivazione del suo pensiero in vari modi>. L’intellettuale? Perché, non il politico? L’uomo del quotidiano?

Un incalzante interrogativo mi sprona a chiedermi: una riflessione sui saperi, rilevarne o il loro regime dispositivo attraverso il quale lascia circolare fra i suoi vari enunciati effetti di potere ׀ domanda che avrei voluto comporre a Foucault per il suo condivisibile propositivo, espresso in Microfica del potere: <non si tratta di affrancare la verità da ogni sistema di potere…ma di staccare il potere della verità dalle (varie) egemonie> ׀ o i loro limiti, riconducibili ad una loro autocostruzione dei loro piani d’intervento, differenziati nelle pratiche e nelle finalità, non si corre il rischio di attualizzare una proprietà che non posseggono, cioè l’essere?

Mia dissociazione psichica? Riflettendomi, si / effettuo l’ esperienza del mio vivere nella franchezza della doppiezza del mio agire pensante: il testo con le sue verità, sanzionante la storia appassionante di una dimensione processuale che traluce le speculazioni, i conflitti, lo scarto tra proposizioni immaginative e proposizioni che si rispecchiano nell’ordine logico dei vari saperi, nella referenza dei loro settori di appartenenza e sia nel <vecchio mestiere> (Pavese) dell’affrontare il quotidiano e la cui <sventura ci fa perdere il tempo e il mondo> (Blanchot).

Mio schema mentale assimilato ed adattato nel travaglio situazionale tra il razionale e il normativo / mio? / sociale in reciproca interattività di contagio a tal punto che, nel rispecchiarmi nell’altro straniero, avverto il suo richiamo alla mia estraneità (Jabès)? / responsabilità dei saperi? Si, ma nel loro effetto solvente, il quale nel sociale viene considerato una sorta di termine ad quem.
Ma, se liberiamo i sapere dall’interrogativo che cosa sono, il nervo metafisico della domanda, e lo poniamo sui reali protagonisti dei vari saperi, cioè filosofi, scienziati, politologi, economisti, teologi e tutti quelli, per farla breve, che esprimono la cultura del momento, con i loro interessi, le ambizioni, le pretese (Stengers) e soprattutto con schemi mentali assorbiti per scuola e adattati nell’input dell’insorgenza di emergenze sotto il segno della sospensione, chi è il responsabile?

Qui mi si aprono e si intrecciano una serie di interrogativi che investono sia le diversità egemoniche configurativi del nostro comportamento socioindividuale sia il comportamento in quanto tale.
Interrogativi, per i quali il risveglio della nostra memoria storica si rende più che mai indispensabile, ripeto, per un capire intenzionato a un capirci.


Chiudo, per riprenderli, distinti, nei prossimi soliloqui.
Franco Riccio

1 commento:

  1. Un “commento” a “Soliloquio in esternazione” di Franco Riccio

    La nostra coscienza si arricchisce di trame esistenziali semplici e complesse: le nutre e le trasforma.
    Che cosa dire a se stessi (ammesso che si possa parlare a se stessi)?
    La riflessione è inutile quando l’evidenza appare chiara?
    Compiere il più banale dei passi è già prendere una decisione: occorre, perciò, mantenere sempre alto il livello di vigilanza.
    Siamo esposti ai fluidi ritmi di un esistere che ci appartiene in maniera intima ma che può apparire, talvolta, entità quasi estranea in continua metamorfosi (“Io è un altro”, disse Rimbaud).
    L’attimo, ad esempio, non è momentaneo blocco del tempo, bensì sua elevata intensità: è, perciò, sorpresa e istantanea consapevolezza di chi lo vive intensamente fino al punto di trascurare il resto.
    Certo, in simile frangente, la capacità di giudizio risulta meno ampia: ma, a ben vedere, meno ampia rispetto a che cosa?
    In altri termini: che cosa significa essere liberi e, di conseguenza, aspirare a esserlo?
    Quello della libertà è, forse, un traguardo fittizio?
    Non si tratta di raggiungere una meta una volta per sempre, bensì d’impostare, quando le circostanze lo richiedono, feconde riflessioni ulteriori.

    Marco Furia

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