<Nessuna analisi
è ancora in grado di penetrare fino nell’inferno dove vengono impresse le
deformazioni>,
la chiusura del precedente soliloquio / iterazione
intenzionale / inversione di stile in
Adorno? La domanda che mi pongo, e i miei pensieri attivano un travagliato
dilemma tra la decifrazione letterale,
vincolando il pensarla nella
direzione del significato esclusivo e quella metaforica che si sottrae al significato
privilegiato ed apre dicibilità che
non si costituiscono nella forma del dettame
“grammaticale” dell’assiomatica logica.
Alla mia mente, Derrida e la dicibilità che <non dà luogo a una soluzione nella forma della
dialettica speculativa> (Posizioni).
L’antica scuola
dissotterra in me il punto d’appoggio accreditato:
Derrida.
Il condizionamento
pedagogico ombra la mia velleità dell’incondizionato
– per l’appunto, Adorno in chiusura dei Minima
moralia!
Riaccendo la mia questione nel dilemma: asserzione sostitutiva della sua solita
capillarità problematizzante ogni rilievo
che pone all’attenzione? Pessimismo? o un mettere in evidenza un riscontro
all’interno dell’analisi, nel suo funzionamento logico, qualunque sia la sua
struttura e la sua fissazione paradigmatica, una tentazione olistica, in funzione della quale la
riflessione angolata, costituendo la
base comunicabile del senso, non può che rendere opaca la trasparenza di
quella cicatrice? Quindi, un
enunciato senza equivoci di un pericolo,
insito nella costruzione linguistica di ogni analisi, di uno slittamento nella
sua separazione dalla contingenza
dell’esperienza sociale? Apertura, pertanto di una via altra che non sia <ritorno ossessivo dell’antico>,
lasciando <trasparire gli archetipi del sempre uguale>? Cammino, quindi,
esplorativo di una scoperta di esperienza che <è satanica>, tale,
appunto, che ogni analisi illuminante <torna a rovesciarsi in mitologia>?
(intreccio asistematico di Minima moralia
e Dialettica illuministica).
Strada, forza d’urto al tentativo di
chiarire in me, e di chiarirlo in esternazione, quel deterioramento del nostro rapporto sociale valutato da Habermas: la mia scelta.
Dispiegare l’inesteso
che l’espressione mi suscita – è sempre un per
me – può costituire un motivo di una intesa
comparativa?
Una intesa,
pertanto, non conflittuale, ma che
lasci tralucere la problematica condizione del nostro vivere la temporalità spaziale del nostro habitat, osservata da
angolazioni diverse, dalle quali si evince la complessità di quella che è la nostra
questione?
Un mio dispiegare, pertanto, a tal fine, non procederà secondo la logica del conclusivo risolto, ma attraverso una pratica interrogante; cioè, una
pratica operativa che dispieg hi l’inesteso in momenti problematici di
riflessioni in angolazioni differenziati.
Una pratica, perciò, che attivi il suo effetto solvente in linea trasversale
alla egemonia socio-culturale della pratica dell’indagine sia filosofica che scientifica ed ermeneutica
e lasci fluire un pensare circolarmente,
facendo mio (nostro?) il già citato rilievo di Lévy-Leblond.
I miei interrogativi
Quel pessimismo,
nomea accreditata dalla critica, non è un tentativo in-urto di mettere in luce una radicata esperienza sociale,
genealogicamente, aggiungerei, strategica,
di ricorso al segno redentorista come
paradigma dell’azione dell’uomo? Se è
tale, in quel segno non viene
circoscritta tutta l’esperienza di un presente
storico, specchio del mondo? Quel segno
non si fa mito: il mondo che è, oltre il quale è l’impenetrabile: fenomeno/noumeno?
Se navigo (sono
nel clima) attraverso la storia, in versione di una genealogia,
in cui all’emergenza, la quale <si
produce sempre in uno stato delle forze> (Foucault), si innesta una
<interazione dei fattori interni>, proprietà climatizzante la formazione
di ogni individuo, e <dei fattori esterni>, gli input della contingenza, per cui ogni condotta diviene
un’assimilazione del dato a schemi anteriori e allo stesso tempo accomodamento
di tali schemi alla situazione attuale> (Piaget), non approdo in un porto in
cui quell’impenetrabilità possa avere,
non un indicibile (Derrida), ma un dicibile, sfuggente all’opposizione
binaria?
Quel dicibile, allora, consapevole di
“abitare” in quell’opposizione, in quanto quell’impenetrabile, sul piano filosofico e scientifico si propone
problema del limite, ׀ un tema da questionare separatamente per le sue svolte
tematiche, concentranti problemi, quali il tempo,
in figurazione: ciclica/lineare; immanenza/trascendenza; verità di ragione e verità di fatto; il processo di formalizzazione
del linguaggio; il mito, e,
pertanto, coinvolgenti filosofia, scienza, linguistica e anche teologia ׀ di fatto, non rileva un comportamento
individuale e sociale?
esumare dal quel termine un implicito significato, in
quanto espressione di una reciproca convertibilità di un processo di reificazione che è individuale in quanto
è sociale ed è tale in quanto
individuale, è una sgrammaticatura?
non mettere in luce un processo di vita vissuta e vivente, per coglierne le “deformazioni impresse” perché a decidere
sulla possibilità del sussistere o no di un rilievo debba essere, in ultima
analisi, una proposizione, non è un attualizzare una mitologia del limite?
Una proposizione
di vita vissuta, fissata, non più
dalla parola, ma dal linguaggio scritto che si fa testo, diventata la nostra una civiltà della
scrittura, che, per l’erranza del
linguaggio, si riapre alla ridescrizione,
non riproduce, su basi diverse, la vita come argomento? Nietzsche, La gaia scienza, e Ricoeur, Che cosa è un testo, a confronto.
proprio oggi?
Un oggi demitizzante ogni limite dal linguaggio documentaristico di una penetrante anatomizzazione,
rivelata al nostro sguardo: gli “angoli oscuri” della terra, dell’universo
intero, del nostro corpo si illuminano di una luce, inedita ai nostri
predecessori /
non ci auto-definiamo post-moderni,
quindi, usciti dalla minorità?
scienza, medicina non più discipline ostiche ad un pubblico sempre più vasto;
democrazia, conquistata con le lotte sociali, imperante: sia sulle barbarie
naziste, fasciste, staliniste; sia sulla discriminante violazione dei diritti
umani
tuttavia, una persistente “deformazione”
manifesta nel <mondo amministrato>, non evidenzia una neoplasia, un
tumore in neoformazione?
il nostro <inferno>, una metafora, senza dubbio,
ma, non è un figurato vivido di
quello che è il diabolico macchinismo di edipizzazione, il quale, attraverso
tutte le sue variazioni e modalità, risaltanti dai descrittivi di Freud,
Lacan, Deleuze, Guattari, conia il criterio di discernimento del nostro
comportamento? Comportamento, il quale, senza lasciarsi ridurre ad un unico modello, non costituisce la tensione
riproduttiva di una repressione
interminabile? Una tensione, pertanto, “corroborante” il nostro comportamento e il rapporto di
convivenza e tale che le ragioni dell’uno costituiscono uno svantaggio per
l’altro?
Le parole non
sono segni in formazione discorsiva di connotazione di uno “stato di fatto”,
mediata dall’angolazione paradigmatica? quindi, il rischio di inafferrabilità
alla trasparenza di pensiero dello “stato di fatto” non è plausibile,
soprattutto se lo “stato di fatto”, va osservato nel suo macchinoso e perverso
riprodursi? Non è verificabile, oggi, l’usura di una loro pretesa corrispondenza con una esperienza che noi da “laici”
riscontriamo trasversalizzata, a vari livelli, da processi dissipativi,
provocatori di rotture di equilibri consolidati, descritti da Prigogine,
l’”accreditato”? Non siamo passati dall’approccio cinetico a quella informatico,
intercalato da una “tentata”
autosufficienza del linguaggio, messa in discussione da Wittgenstein nel Tractatus e circoscritta nella formalizzazione del linguaggio, garante,
non della sua concordanza o no con la realtà, ma della sua correttezza
discorsiva?
eppure, quel “protocollo” reificante si autoriproduce in contagio mentale nel nostro
comportamento da individui sani, e nel nostro spazio di vivibilità, da noi istituzionalizzato, per consequenziale ossessione di garanzia super-individuale, nella
sfuggente dimenticanza
della nostra storia.
ho sentito spesso voci di vittoria di una democrazia
diretta dai fruitori della rete, e la mia speranza diventa come il <fiore senza profumo> di Mallarmé:
se c’è un vincitore, c’è un vinto!
Perché la potenzialità dinamica di quello che di fatto è
uno strumento operativo, la cui pluralità delle prestazioni apre moduli di
interventi in alterazioni che
rimettono in gioco risultati acquisiti, nelle mani dell’uomo si trasforma in
una fissazione in ordine regolativo
del configurato acquisito? Il mondo è: il mito.
Nostalgia dell’antica logica
dell’essenza? Il rilievo di Wittgenstein in Ricerche filosofiche riscontrato in tutte le scienze? La stregoneria ontologica, già citata, di Adorno?
Gli interrogativi strozzano la mia parola / l’impronta sistematico-conclusiva in ogni immagine prospettica di
innovazione mette in gioco queste mie stesse esternazioni / l’esca,
pedagogicamente da me assimilata, del risultato
dicibile in criterio oggettivante la sua soggettività, anche nella forma
della negatività – la sostanza non
cambia – rende problematico il mio sforzo / consapevole del condizionamento e
nello stesso tempo della complicità del tacere.
Non mi rimane altra scelta, se non quella di procedere
per interrogativi / solo interrogativi / altri ancora
/ interrogativi in
sospensione di attesa all’ascolto / interrogativi sull’eterogeneità
dei sistemi esplicativi, i quali, per procedura
logica argomentativa, da tempo
accreditata e persistente nelle loro variabili climatiche, hanno mirato alla
coerenza e all’esaustività delle loro definizioni,
disattivando la memoria storica / il
campanello d’allarme di Adorno: quelle deformazioni
emergono sempre / cicatrici, segni
permanenti nel nostro agire pensante che,
nella dimenticanza, rimbalzano
<alla luce come allegria, aperture, affabilità, felice adattamento
all’inevitabile e semplice e schietto senso pratico> (conclusione della
frase).
Il ghigno, che Nietzsche mette sulle
labbra del nano (spirito di gravità) nel dialogo con Zarathustra (pensiero
abissale) - <ogni pietra scagliata deve cadere!> -, non è
l’esemplificazione simbolica di quella reificazione
dimentica e vissuta con <schietto senso pratico, rilevato da Adorno? Non esprime una tara nel nostro comportamento tale che ci spinge ad un agire
pensante con quel pragmatismo
burocratico, mirante al vantaggio?
Tronco gli interrogativi, per riprenderli nel prossimo /
mi aggredisce la stanchezza / il suono della campana della chiesa vicina mi
ricorda che oggi è il natale /
credenti e non credenti tutti a tavola,
forse con una lacrima per i lazzari / spiritualità contaminata dallo smog del mercato / credenti e non
credenti in <felice adattamento all’inevitabile e semplice e schietto senso
pratico>.
Franco Riccio
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