domenica 28 dicembre 2014

UNDICESIMO SOLILOQUIO

<Nessuna analisi è ancora in grado di penetrare fino nell’inferno dove vengono impresse le deformazioni>,

la chiusura del precedente soliloquio / iterazione intenzionale / inversione  di stile in Adorno? La domanda che mi pongo, e i miei pensieri attivano un travagliato dilemma tra la decifrazione letterale, vincolando il pensarla nella direzione del significato esclusivo e quella metaforica che si sottrae al significato privilegiato ed apre dicibilità che non si costituiscono nella forma  del dettame “grammaticale” dell’assiomatica logica.
Alla mia mente, Derrida e la dicibilità che <non dà luogo a una soluzione nella forma della dialettica speculativa> (Posizioni).

L’antica scuola dissotterra in me il punto d’appoggio accreditato: Derrida.
Il condizionamento pedagogico ombra la mia velleità dell’incondizionato – per l’appunto, Adorno in chiusura dei Minima moralia!
 
Riaccendo la mia questione nel dilemma: asserzione sostitutiva della sua solita capillarità problematizzante ogni rilievo che pone all’attenzione? Pessimismo? o un mettere in evidenza un riscontro all’interno dell’analisi, nel suo funzionamento logico, qualunque sia la sua struttura e la sua fissazione paradigmatica, una tentazione olistica, in funzione della quale la riflessione angolata, costituendo la base comunicabile del senso, non può che rendere opaca la trasparenza di quella cicatrice? Quindi, un enunciato senza equivoci di un pericolo, insito nella costruzione linguistica di ogni analisi, di uno slittamento nella sua separazione dalla contingenza dell’esperienza sociale? Apertura, pertanto di una via altra che non sia <ritorno ossessivo dell’antico>, lasciando <trasparire gli archetipi del sempre uguale>? Cammino, quindi, esplorativo di una scoperta di esperienza che <è satanica>, tale, appunto, che ogni analisi illuminante <torna a rovesciarsi in mitologia>? (intreccio asistematico di Minima moralia e Dialettica illuministica). 

Strada, forza d’urto al tentativo di chiarire in me, e di chiarirlo in esternazione, quel deterioramento del nostro rapporto sociale valutato da Habermas: la mia scelta.

Dispiegare l’inesteso che l’espressione mi suscita – è sempre un per me – può costituire un motivo di una intesa comparativa?
Una intesa, pertanto, non conflittuale, ma che lasci tralucere la problematica condizione del nostro vivere la temporalità spaziale del nostro habitat, osservata da angolazioni diverse, dalle quali si evince la complessità di quella che è la nostra questione?

Un mio dispiegare, pertanto, a tal fine, non procederà secondo la logica del conclusivo risolto, ma attraverso una pratica interrogante; cioè, una pratica operativa che dispieg hi l’inesteso in momenti problematici di riflessioni in angolazioni differenziati.
Una pratica, perciò, che attivi il suo effetto solvente in linea trasversale alla egemonia socio-culturale della pratica dell’indagine sia filosofica che scientifica ed ermeneutica e lasci fluire un pensare circolarmente, facendo mio (nostro?) il già citato rilievo di Lévy-Leblond.

I miei interrogativi

Quel pessimismo, nomea accreditata dalla critica, non è un tentativo in-urto di mettere in luce una radicata esperienza sociale, genealogicamente, aggiungerei, strategica, di ricorso al segno redentorista come paradigma dell’azione dell’uomo? Se è tale, in quel segno non viene circoscritta tutta l’esperienza di un presente storico, specchio del mondo? Quel segno non si fa mito: il mondo che è, oltre il quale è l’impenetrabile: fenomeno/noumeno?

Se navigo (sono nel clima) attraverso la storia, in versione di una genealogia, in cui all’emergenza, la quale <si produce sempre in uno stato delle forze> (Foucault), si innesta una <interazione dei fattori interni>, proprietà climatizzante la formazione di ogni individuo, e <dei fattori esterni>, gli input della contingenza, per cui ogni condotta diviene un’assimilazione del dato a schemi anteriori e allo stesso tempo accomodamento di tali schemi alla situazione attuale> (Piaget), non approdo in un porto in cui quell’impenetrabilità possa avere, non un indicibile (Derrida), ma un dicibile, sfuggente all’opposizione binaria?

 Quel dicibile, allora, consapevole di “abitare” in quell’opposizione, in quanto quell’impenetrabile, sul piano filosofico e scientifico si propone problema del limite, ׀ un tema da questionare separatamente per le sue svolte tematiche, concentranti problemi, quali il tempo, in figurazione: ciclica/lineare; immanenza/trascendenza; verità di ragione e verità di fatto; il processo di formalizzazione del linguaggio; il mito, e, pertanto, coinvolgenti filosofia, scienza, linguistica e anche teologia ׀ di fatto, non rileva un comportamento individuale e sociale?

esumare dal quel termine un implicito significato, in quanto espressione di una reciproca convertibilità di un processo di reificazione che è individuale in quanto è sociale  ed è tale in quanto individuale, è una sgrammaticatura?

non mettere in luce un processo di vita vissuta e vivente, per coglierne le “deformazioni impresse” perché a decidere sulla possibilità del sussistere o no di un rilievo debba essere, in ultima analisi, una proposizione, non è  un attualizzare una mitologia del limite?

Una proposizione di vita vissuta, fissata, non più dalla parola, ma dal linguaggio scritto che si fa testo, diventata la nostra una civiltà della scrittura, che, per l’erranza del linguaggio, si riapre alla ridescrizione, non riproduce, su basi diverse, la vita come argomento? Nietzsche, La gaia scienza, e Ricoeur, Che cosa è un testo, a confronto.

proprio oggi? Un oggi demitizzante ogni limite dal linguaggio documentaristico di una penetrante anatomizzazione, rivelata al nostro sguardo: gli “angoli oscuri” della terra, dell’universo intero, del nostro corpo si illuminano di una luce, inedita ai nostri predecessori /
non ci auto-definiamo post-moderni, quindi, usciti dalla minorità? scienza, medicina non più discipline ostiche ad un pubblico sempre più vasto; democrazia, conquistata con le lotte sociali, imperante: sia sulle barbarie naziste, fasciste, staliniste; sia sulla discriminante violazione dei diritti umani

 tuttavia, una persistente “deformazione” manifesta nel <mondo amministrato>, non evidenzia una neoplasia, un tumore in neoformazione?

il nostro <inferno>, una metafora, senza dubbio, ma, non è un figurato vivido di quello che è il diabolico macchinismo di edipizzazione, il quale, attraverso tutte le sue variazioni e modalità, risaltanti dai descrittivi di Freud, Lacan,  Deleuze, Guattari, conia il criterio di discernimento del nostro comportamento? Comportamento, il quale, senza lasciarsi ridurre ad un unico modello, non costituisce la tensione riproduttiva di una repressione interminabile? Una tensione, pertanto, “corroborante” il nostro comportamento e il rapporto di convivenza e tale che le ragioni dell’uno costituiscono uno svantaggio per l’altro?

Le parole non sono segni in formazione discorsiva di connotazione di uno “stato di fatto”, mediata dall’angolazione paradigmatica? quindi, il rischio di inafferrabilità alla trasparenza di pensiero dello “stato di fatto” non è plausibile, soprattutto se lo “stato di fatto”, va osservato nel suo macchinoso e perverso riprodursi? Non è verificabile, oggi, l’usura di una loro pretesa corrispondenza con una esperienza che noi da “laici” riscontriamo trasversalizzata, a vari livelli, da processi dissipativi, provocatori di rotture di equilibri consolidati, descritti da Prigogine, l’”accreditato”? Non siamo passati dall’approccio cinetico a quella informatico, intercalato da   una “tentata” autosufficienza del linguaggio, messa in discussione da Wittgenstein nel Tractatus e circoscritta nella formalizzazione del linguaggio, garante, non della sua concordanza o no con la realtà, ma della sua correttezza discorsiva?

eppure, quel “protocollo” reificante si autoriproduce in contagio mentale nel nostro comportamento da individui sani, e nel nostro spazio di vivibilità, da noi istituzionalizzato, per consequenziale ossessione di garanzia super-individuale, nella sfuggente  dimenticanza della nostra storia.

ho sentito spesso voci di vittoria di una democrazia diretta dai fruitori della rete, e la mia speranza diventa come il <fiore senza profumo> di Mallarmé: se c’è un vincitore, c’è un vinto!

Perché la potenzialità dinamica di quello che di fatto è uno strumento operativo, la cui pluralità delle prestazioni apre moduli di interventi in alterazioni che rimettono in gioco risultati acquisiti, nelle mani dell’uomo si trasforma in una fissazione in ordine regolativo del configurato acquisito? Il mondo è: il mito.

Nostalgia dell’antica logica dell’essenza? Il rilievo di Wittgenstein in Ricerche filosofiche riscontrato in tutte le scienze? La stregoneria ontologica, già citata, di Adorno?

Gli interrogativi strozzano la mia parola / l’impronta sistematico-conclusiva in ogni immagine prospettica di innovazione mette in gioco queste mie stesse esternazioni / l’esca, pedagogicamente da me assimilata, del risultato dicibile in criterio oggettivante la sua soggettività, anche nella forma della negatività – la sostanza non cambia – rende problematico il mio sforzo / consapevole del condizionamento e nello stesso tempo della complicità del tacere.
Non mi rimane altra scelta, se non quella di procedere per interrogativi / solo interrogativi / altri ancora

/ interrogativi in sospensione di attesa all’ascolto / interrogativi sull’eterogeneità dei sistemi esplicativi, i quali, per procedura logica argomentativa, da tempo accreditata e persistente nelle loro variabili climatiche, hanno mirato alla coerenza e all’esaustività delle loro definizioni, disattivando la memoria storica / il campanello d’allarme di Adorno: quelle deformazioni emergono sempre / cicatrici, segni permanenti nel nostro agire pensante che, nella dimenticanza, rimbalzano <alla luce come allegria, aperture, affabilità, felice adattamento all’inevitabile e semplice e schietto senso pratico> (conclusione della frase).

Il  ghigno,  che Nietzsche mette sulle labbra del nano (spirito di gravità) nel dialogo con Zarathustra (pensiero abissale) - <ogni pietra scagliata deve cadere!> -, non è l’esemplificazione simbolica di quella reificazione dimentica e vissuta con <schietto senso pratico, rilevato da Adorno? Non esprime una tara nel nostro comportamento tale che ci spinge ad  un agire pensante con quel pragmatismo burocratico, mirante al vantaggio



Tronco gli interrogativi, per riprenderli nel prossimo / mi aggredisce la stanchezza / il suono della campana della chiesa vicina mi ricorda che oggi è il natale / credenti e non credenti tutti a tavola, forse con una lacrima per i lazzari / spiritualità contaminata dallo smog del mercato / credenti e non credenti in <felice adattamento all’inevitabile e semplice e schietto senso pratico>.
Franco Riccio

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