La
mia scelta
Una
presenza/assenza messa in atto dalle nebbie prodotte dal
linguaggio, non nel suo funzionamento logico, ma nella persistente
fissazione paradigmatica di un dicibile specchio di una
situazione socio-economico-politica planetaria, la quale, nella
complessità e contraddittorietà del suo tessuto e della sua
struttura, lascia tralucere l’indeterminatezza del
rapsodico / ostinazione, la quale, in conseguenza, si
costituisce, attraverso il segno, tangibile nel linguaggio,
immagine prospettica di una società, redenta dalle sue impurità.
Evidenza,
per me, frutto di una dimenticanza, mi ripeto, divenuta
la nostra memoria storica, e per essa l’insidia che ha
azzerato le lotte di liberazione – rivoluzioni perdute / prassi
rinviata a tempo indeterminato – e resa più efficiente,
avvalendosi del talento creativo degli uomini di ingegno e dello
stesso desiderio dell’uomo di aspirare all’incondizionato,
la persistente reificazione delle coscienze.
Correlazione
perniciosa tra i retaggi inquinanti i vari settori economici,
politici, culturali (filosofici, scientifici, estetici) religiosi,
con le loro discipline di supporto procedurale e di svolgimento
progressivo delle loro metodologie che li caratterizzano, e il loro
rapporto di reciproca reversibilità col reale processo della vita
della società (cfr. Adorno, Prismi).
Correlazione
da intendere non come relazione tra causa/effetto, perché in
ciascun settore, con il loro supporto disciplinare, cosi come nella
reciproca reversibilità, semplificando, con la società, alle regole
generali che regolarizzano sia le loro configurazioni sia il processo
sociale si accompagnano contro-effetti e fenomeni generativi della
sua stessa (correlazione) negazione.
La
correlazione, per me, è un insieme di indizi, estensione di
una intesa pedagogicamente inoculata.
Correlazione
letale / ne è testimone la storia / in ogni epoca il rapporto
fra gli uomini da paritario, per la medesima articolazione
temporale del vivere nello stesso spazio, vagito/rantolo,
quindi legame ׀
la parola
ha un senso pregnante – il mio linguaggio povero riesce
soltanto ad esprimerlo con la parola compartecipazione ׀
variamente
illuminata dal talento umano, si è costituito discriminatorio
– la democrazia, conquistata dalla lotta politica e sociale, lo
rende accettabile nel diritto/dovere della delega: il
voto, e il paritario, conquistato dalle lotte
sociali, acquista legalità nello schizzo già
tracciato dall’uomo nelle sue variabili spazio-temporali, dalla
natura, attraverso l’architettura, edificata dal numero,
funzionale a quel fiotto per la sua saldezza e perseveranza,
di piani organizzativi duplicativi del vivere di ogni uomo:
l’uomo decisionale, o eletto in forza del numero o
per meriti, sul comportamento dei suoi simili;
l’uomo appendice del decisionalista.
Minosse
democratico attraverso il numero / i retaggi, radici
diverse, riproducono la radice madre: il labirinto nella
forma del condizionato, riprodotto dalla nostra
cooperazione.
e
qui Adorno, in quella chiusura dei Minima moralia che
riaccendo dall’oscurità consacrata dai fautori di un sapere
burocratico:
il
pensiero che respinge più appassionatamente il proprio
condizionamento, per amore dell’incondizionato, cade più
inconsapevolmente, e quindi più fatalmente, in balia del mondo
anche
la propria impossibilità esso deve comprendere per amore della
possibilità
La
mia possibilità d’intesa
e
qui il correlarmi con Marco Furia da indiretto, sottinteso tra le
pieghe del soliloquio precedente, tendente ad orientare la
leggibilità delle mie perplessità di esternare in linguaggio
scritto una inquietante riflessione sul problema vitale
del comune vivere l’esistente, patrimonio di ogni uomo, si
fa più diretto, secondo la mia scelta dell’ascolto
comparativo.
L’interrogativo
e i problemi che si percepiscono nel suo messaggio, aprono orizzonti
tematici vivi in me, e che spero di affrontare in seguito in ascolto
del taglio della loro elaborazione..
Ora,
ciò che spinge l’esternare quello che è un impensierirmi in
affanno è la fondata sua sollecitudine ad uscire dalla mia
posizione dilemmatica, riassumibile nel tentativo di trovare e
sperimentare una possibilità d’intesa mobile e sciolta
dall’io so, seme del conflitto delle interpretazioni e,
quello che è più tragico, del suo rifrangersi come posta in gioco
della relazione sociale e delle nostre pratiche quotidiane.
Il
mio tentativo si sviluppa tra un districarmi tra le pieghe di
un riflettermi nel rifletterlo: il travaglio del dubbio
/ slittare, contro la mia intenzione, sulle tracce della
controversa polisemia a voci differenziate intorno alla
fattualità del nostro vivere individuale e collettivo /
quindi, riprodurre, mediante le diverse tecniche del linguaggio,
quella attualità in divenire in una proposizione
configurativa circostanziata in dimensione ontologica e
misurarsi dialetticamente / il risultato: attivazione di quel
pensiero della <gerarchia violenta>, qualificativo, per Derrida
(Posizioni), del pensiero metafisico e racchiudere un
esistente che manifesta, nel balenio dei suoi progressi,
conquista per l’umanità da non perdere, in un indurito
assorbimento dalla dipendenza del segno catturato nel dicibile.
Non
si tratta, nel mio sollevarlo all’attenzione, di presunzione di
originalità né di una riduzione al minimo comune denominatore la
diversità dei loro timbri / all’inverso: in me è la
consapevolezza di essere infetto di quella malattia sociale
della cultura, motivo del tentativo; in quei timbri differenziati
è la loro irriducibilità al <criterio> che mantiene
in forza il conio normativo con il quale sigilla e valorizza
una forma di comportamento razionalmente adatto sia
all’individuo nella sua singolarità sia nella
interrelazione con i suoi simili nel rapporto e nella costruzione
dello spazio comunitario, cioè la società.
Ricordiamoci
della nostra natura esistenziale che il dicibile,
nella cattura che si fa segno seducente, eclissa la
dualità bipolare individuo-società: la trasforma in
postulato teorico che l’intenzionante del dicibile
elabora, secondo la propria ermeneutica, in relazione ad
una semiologia catturante nel segno che conia, appunto,
la problematica vissuta dal vivente nella sua stagione,
regolarizzandone il comportamento individuale e sociale.
Differenze,
ripeto, irriducibili tra di loro: imparagonabile il logos con
l’evidenza scientifica / e questa con l’ermeneutica
della disseminazione di Derrida / e questa ancora con la
semantica del web: l’hardware e il software /
per non parlare della ripresa oggi del dialogo: dialettica dai
presupposti inconciliabili: il mio problema in affanno / direi
il nostro / il timbro d’origine del nostro liberarci
dal tu devi e prenderci il diritto dell’io voglio
(Nietzsche) / timbro in attualità: più le nostre primavere
illuminano il nostro rapsodico cammino, più l’iridescenza di
quel timbro si fa più viva, nel cambiamento d’inchiostro,
più la nostra cecità si fa più profonda – e in essa vediamo la
nostra libertà e fortifichiamo il nostro pietismo nella
crescita dei lazzari.
Mi
perdoni. Ha vinto il mio affanno.
In
quel timbro leggo quel condizionato che Adorno ci
invita a tenere vivo nel nostro desiderio/bisogno di libertà /
cioè gestori e non pazienti della nostra mente e
del nostro corpo, e da tali cooperatori e gestori,
con gli altri tali, spazi di vivibilità, determinati ad
essere appendici di un processo sociale che ci coinvolge.
Quel
rapporto intrinseco tra condizionato e incondizionato,
sollevo all’attenzione di chi è disponibile all’ascolto e verso
il quale si dirigerà il mio ascolto / è il problema, il
mio, da approfondire in esternazione, facendo proprio il
suggerimento di Nancy, ripetendomi, del riflettere riflettendomi
sulla mia condizione di individuo educato a pensare
secondo una grammatica del pensare sotto il dettame delle regole,
nel controllo delle mie emozioni.
Allora?
Dichiararsi sconfitto e biascicarsi nel proprio soliloquio?
Irrisorietà di un contributo configurativo di una prassi
intenzionata al cambiamento culturale della nostra
società / ritentare di ribattere le proposte dialogiche di
Habermas o di Apel, per me macchiate di normatività, pur nella loro
accettabilità? La trasversalità dei gruppi soggetti, con il
“fantasma” della pluralità del ritorno di aggiornati e funesti
“soggetti storici” di Deleuze e Guattari?
Allora?
Tentare, attraverso un dicibile, nella consapevolezza del
rischio di ingrigliarsi nella forma della dialettica speculativa,
seguendo in trasgressione l’indicibile, suggerito da Derrida
in Posizioni, che slitti quell’<assiologicamente>
che cementa in ogni forma dialogica la normativa non linguistica del
discorso vero, disgiunto dal dire poetico – memoria
aristotelica.
Un
dicibile (mia ingenuità) autoriflessivo espresso in
comunicabilità interattiva, in modo da lasciar circolare idee in
reciproca dissonanza, <senza mai costituire un terzo termine>
(ibidem), tali, quindi, da proporsi indipendente l’uno
dall’altro / testimonianza della possibilità di una razionalità
comunicazionale non normativa né unificante, ma in
interazione disgiuntiva di riflessioni angolate, mantenendo
ferma la loro identità, e, pertanto, allignante
l’acclimatarsi una prassi dell’ascolto reciproco –
condizione indispensabile per la promozione di una rivoluzione
culturale, poiché elimina la dicotomia discriminatoria, a tutti
i livelli, dell’alto e del basso, effetto
della nostra malattia sociale, la quale è tale in quanto
individuale ed è individuale in quanto sociale.
Franco Riccio
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