martedì 9 dicembre 2014

SETTIMO SOLILOQUIO




La mia scelta



Una presenza/assenza messa in atto dalle nebbie prodotte dal linguaggio, non nel suo funzionamento logico, ma nella persistente fissazione paradigmatica di un dicibile specchio di una situazione socio-economico-politica planetaria, la quale, nella complessità e contraddittorietà del suo tessuto e della sua struttura, lascia tralucere l’indeterminatezza del rapsodico / ostinazione, la quale, in conseguenza, si costituisce, attraverso il segno, tangibile nel linguaggio, immagine prospettica di una società, redenta dalle sue impurità.



Evidenza, per me, frutto di una dimenticanza, mi ripeto, divenuta la nostra memoria storica, e per essa l’insidia che ha azzerato le lotte di liberazione – rivoluzioni perdute / prassi rinviata a tempo indeterminato – e resa più efficiente, avvalendosi del talento creativo degli uomini di ingegno e dello stesso desiderio dell’uomo di aspirare all’incondizionato, la persistente reificazione delle coscienze.



Correlazione perniciosa tra i retaggi inquinanti i vari settori economici, politici, culturali (filosofici, scientifici, estetici) religiosi, con le loro discipline di supporto procedurale e di svolgimento progressivo delle loro metodologie che li caratterizzano, e il loro rapporto di reciproca reversibilità col reale processo della vita della società (cfr. Adorno, Prismi).

Correlazione da intendere non come relazione tra causa/effetto, perché in ciascun settore, con il loro supporto disciplinare, cosi come nella reciproca reversibilità, semplificando, con la società, alle regole generali che regolarizzano sia le loro configurazioni sia il processo sociale si accompagnano contro-effetti e fenomeni generativi della sua stessa (correlazione) negazione.

La correlazione, per me, è un insieme di indizi, estensione di una intesa pedagogicamente inoculata.

Correlazione letale / ne è testimone la storia / in ogni epoca il rapporto fra gli uomini da paritario, per la medesima articolazione temporale del vivere nello stesso spazio, vagito/rantolo, quindi legame ׀ la parola ha un senso pregnante – il mio linguaggio povero riesce soltanto ad esprimerlo con la parola compartecipazione ׀ variamente illuminata dal talento umano, si è costituito discriminatorio – la democrazia, conquistata dalla lotta politica e sociale, lo rende accettabile nel diritto/dovere della delega: il voto, e il paritario, conquistato dalle lotte sociali, acquista legalità nello schizzo già tracciato dall’uomo nelle sue variabili spazio-temporali, dalla natura, attraverso l’architettura, edificata dal numero, funzionale a quel fiotto per la sua saldezza e perseveranza, di piani organizzativi duplicativi del vivere di ogni uomo: l’uomo decisionale, o eletto in forza del numero o per meriti, sul comportamento dei suoi simili; l’uomo appendice del decisionalista.



Minosse democratico attraverso il numero / i retaggi, radici diverse, riproducono la radice madre: il labirinto nella forma del condizionato, riprodotto dalla nostra cooperazione.



e qui Adorno, in quella chiusura dei Minima moralia che riaccendo dall’oscurità consacrata dai fautori di un sapere burocratico:



il pensiero che respinge più appassionatamente il proprio condizionamento, per amore dell’incondizionato, cade più inconsapevolmente, e quindi più fatalmente, in balia del mondo



anche la propria impossibilità esso deve comprendere per amore della possibilità



La mia possibilità d’intesa



e qui il correlarmi con Marco Furia da indiretto, sottinteso tra le pieghe del soliloquio precedente, tendente ad orientare la leggibilità delle mie perplessità di esternare in linguaggio scritto una inquietante riflessione sul problema vitale del comune vivere l’esistente, patrimonio di ogni uomo, si fa più diretto, secondo la mia scelta dell’ascolto comparativo.

L’interrogativo e i problemi che si percepiscono nel suo messaggio, aprono orizzonti tematici vivi in me, e che spero di affrontare in seguito in ascolto del taglio della loro elaborazione..


Ora, ciò che spinge l’esternare quello che è un impensierirmi in affanno è la fondata sua sollecitudine ad uscire dalla mia posizione dilemmatica, riassumibile nel tentativo di trovare e sperimentare una possibilità d’intesa mobile e sciolta dall’io so, seme del conflitto delle interpretazioni e, quello che è più tragico, del suo rifrangersi come posta in gioco della relazione sociale e delle nostre pratiche quotidiane.



Il mio tentativo si sviluppa tra un districarmi tra le pieghe di un riflettermi nel rifletterlo: il travaglio del dubbio / slittare, contro la mia intenzione, sulle tracce della controversa polisemia a voci differenziate intorno alla fattualità del nostro vivere individuale e collettivo / quindi, riprodurre, mediante le diverse tecniche del linguaggio, quella attualità in divenire in una proposizione configurativa circostanziata in dimensione ontologica e misurarsi dialetticamente / il risultato: attivazione di quel pensiero della <gerarchia violenta>, qualificativo, per Derrida (Posizioni), del pensiero metafisico e racchiudere un esistente che manifesta, nel balenio dei suoi progressi, conquista per l’umanità da non perdere, in un indurito assorbimento dalla dipendenza del segno catturato nel dicibile.



Non si tratta, nel mio sollevarlo all’attenzione, di presunzione di originalità né di una riduzione al minimo comune denominatore la diversità dei loro timbri / all’inverso: in me è la consapevolezza di essere infetto di quella malattia sociale della cultura, motivo del tentativo; in quei timbri differenziati è la loro irriducibilità al <criterio> che mantiene in forza il conio normativo con il quale sigilla e valorizza una forma di comportamento razionalmente adatto sia all’individuo nella sua singolarità sia nella interrelazione con i suoi simili nel rapporto e nella costruzione dello spazio comunitario, cioè la società.



Ricordiamoci della nostra natura esistenziale che il dicibile, nella cattura che si fa segno seducente, eclissa la dualità bipolare individuo-società: la trasforma in postulato teorico che l’intenzionante del dicibile elabora, secondo la propria ermeneutica, in relazione ad una semiologia catturante nel segno che conia, appunto, la problematica vissuta dal vivente nella sua stagione, regolarizzandone il comportamento individuale e sociale.

Differenze, ripeto, irriducibili tra di loro: imparagonabile il logos con l’evidenza scientifica / e questa con l’ermeneutica della disseminazione di Derrida / e questa ancora con la semantica del web: l’hardware e il software / per non parlare della ripresa oggi del dialogo: dialettica dai presupposti inconciliabili: il mio problema in affanno / direi il nostro / il timbro d’origine del nostro liberarci dal tu devi e prenderci il diritto dell’io voglio (Nietzsche) / timbro in attualità: più le nostre primavere illuminano il nostro rapsodico cammino, più l’iridescenza di quel timbro si fa più viva, nel cambiamento d’inchiostro, più la nostra cecità si fa più profonda – e in essa vediamo la nostra libertà e fortifichiamo il nostro pietismo nella crescita dei lazzari.



Mi perdoni. Ha vinto il mio affanno.



In quel timbro leggo quel condizionato che Adorno ci invita a tenere vivo nel nostro desiderio/bisogno di libertà / cioè gestori e non pazienti della nostra mente e del nostro corpo, e da tali cooperatori e gestori, con gli altri tali, spazi di vivibilità, determinati ad essere appendici di un processo sociale che ci coinvolge.

Quel rapporto intrinseco tra condizionato e incondizionato, sollevo all’attenzione di chi è disponibile all’ascolto e verso il quale si dirigerà il mio ascolto / è il problema, il mio, da approfondire in esternazione, facendo proprio il suggerimento di Nancy, ripetendomi, del riflettere riflettendomi sulla mia condizione di individuo educato a pensare secondo una grammatica del pensare sotto il dettame delle regole, nel controllo delle mie emozioni.



Allora? Dichiararsi sconfitto e biascicarsi nel proprio soliloquio? Irrisorietà di un contributo configurativo di una prassi intenzionata al cambiamento culturale della nostra società / ritentare di ribattere le proposte dialogiche di Habermas o di Apel, per me macchiate di normatività, pur nella loro accettabilità? La trasversalità dei gruppi soggetti, con il “fantasma” della pluralità del ritorno di aggiornati e funesti “soggetti storici” di Deleuze e Guattari?



Allora? Tentare, attraverso un dicibile, nella consapevolezza del rischio di ingrigliarsi nella forma della dialettica speculativa, seguendo in trasgressione l’indicibile, suggerito da Derrida in Posizioni, che slitti quell’<assiologicamente> che cementa in ogni forma dialogica la normativa non linguistica del discorso vero, disgiunto dal dire poeticomemoria aristotelica.



Un dicibile (mia ingenuità) autoriflessivo espresso in comunicabilità interattiva, in modo da lasciar circolare idee in reciproca dissonanza, <senza mai costituire un terzo termine> (ibidem), tali, quindi, da proporsi indipendente l’uno dall’altro / testimonianza della possibilità di una razionalità comunicazionale non normativa né unificante, ma in interazione disgiuntiva di riflessioni angolate, mantenendo ferma la loro identità, e, pertanto, allignante l’acclimatarsi una prassi dell’ascolto reciproco – condizione indispensabile per la promozione di una rivoluzione culturale, poiché elimina la dicotomia discriminatoria, a tutti i livelli, dell’alto e del basso, effetto della nostra malattia sociale, la quale è tale in quanto individuale ed è individuale in quanto sociale
Franco Riccio 

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