domenica 21 giugno 2015

VENTINOVESIMO SOLILOQUIO

 Appendice al precedente soliloquio

Guardiamoci negli occhi rispecchiandoci / non avversari né antagonisti / ognuno dal proprio luogo natio in piglio panoramico, tale da sovrastare il geometrico frazionamento geografico che ci ha reso, reciprocamente, stranieri – anche oggi, nella simulazione di cittadini europei, lottizzati all’interno del reticolo delle “cittadinanze” etniche e le cui cicatrici delle nostre “estraneità” si attizzano nel rituale delle parate militari / guardiamoci con l’intensità dell’animo, lasciando scivolare nella nostra pelle il segno impresso dalle ferite, prodotte dal vantaggio personale / riflettiamo riflettendoci in disponibilità comunicativa, sgravata da una logica grammaticale di un sapere, il quale ci ha reso portatori sani del virus del primato

/memorizziamo l’immemore dimenticanza di quel vagito senza timbro, tramite il quale ciascuno di noi ha segnalato, nella diversità senza qualità, la sua convivenza / qualità, timbro anagrafico di una diversità paritetica, la quale avvolge in sé l’illimitata sua varietà, che si trasforma in sperequazione sociale – e quel vagito, legame spontaneo di coabitazione, si declina in vincolo sociale, soggetto al deterioramento, nel quale, rivolgendomi ad Habermas , si fa prezzo / in quel vincolo possiamo rintracciare il male originario del suo stesso costituirsi tale: genealogia di un vincolo, intessuto dall’ordito differenziante l’uomo gerente il destino dei suoi simile (<Io, lo Stato, sono il popolo> (Nietzsche) dall’uomo <appendice> (Adorno) dei suoi deliberati

/male originario conformatosi a guisa di virus / in tale “foggia”, mi chiarisce Isabelle Stengers (Concetti nomadi), <l’origine stessa viene propagata dal fenomeno di propagazione: ogni essere vivente infettato diviene lui stesso centro di propagazione, ciascuno diviene dunque centro potenziale di un nuovo processo, che non esaurisce la sua causa, ma la rigenera nella misura in cui si produce>

Come non riflettere?  Non è questo il momento dell’interrogarci seriamente? Rispecchiare in noi il potenziale rigeneratore di quel virus che noi stessi abbiamo fertilizzato nel costruire la nostra esperienza mondana, imbrunendo gli stessi risvegli primaverili? Quei risvegli non sono stati potenziati attraverso l’ingegno e le lotte di liberazione da ogni oppressione? Un diradarsi dell’oscurità della nostra esistenza, per loro virtù, non ha dischiuso sia linee in ramificazione di orientamento nel suo accidentato passaggio sia l’idoneità a conquistare la democrazia?

Oggi, con le spalle al muro, ci accorgiamo che la società, la nostra, non gratuità provvidenziale, è malata! piagnucolio, lamentele: un ritornello quotidiano a più voci, in unica tonalità, l’espediente del momento dell’unità delle nostre diversità / mitiga le nostre coscienze, inorridite dall’aggravante pesantezza del rapporto tra di noi, macchiato anche dal tradimento dei nostri fiduciari – e non ci interroghiamo? Il manifestarsi di tale deprezzamento, mi ricorda Deleuze nelle Lezioni su Kant, non è costituente il soggetto? ovvietà, il reo, legittima la condanna / ma il singolo, pur nella sua ingiustificabile, e quindi, penalizzabile, manchevolezza, non è, come noi, integrato nel tessuto costituente quel vincolo che manifesta il configurato storico della nostra società e che riflette la consapevolezza che una cultura di un popolo ha del suo momento storico

In quel vincolo abbiamo proiettato tutte le nostre indeterminazioni e ritradotto, nell’integrazione dell’interazione tra individui in entità stabile, resistente alle “perturbazioni”, la massimizzazione del nostro interesse individuale e la ragione egoista della sua trasmissione alle generazioni successive: <la società ha assunto…la malattia di tutti i singoli> (Adorno, Minima moralia).

L’innesco di tale processo segna la radice genealogica del <nucleo logico> della cultura di noi occidentali, e in esso il tessuto formativo in propagazione del come pensiamo: il nostro virus / in esso rinveniamo l’illuminato talento di un realismo catturante l’innovativo, in forza del quale abbiamo illuminato la terra e dissolto i miti e sul quale l’indifferibile nostra inventiva poetica, nella varietà delle sue espressioni, ha sollevato dall’illuminante splendore la linea rossa di una liberazione, edificata sull’illibertà e sulla miseria della moltitudini di individui, ancora, oggi, nella conquistata e sudata democrazia, agganciati alla linea verde del segno, conio di un vantaggio, promesso al prezzo del voto.

Minosse, in metamorfosi, ci siamo asserragliati in un labirinto, nei cui meandri abbiamo recintato uno spazio di coabitazione, proiezione della nostra immagine, intessendo circuiti interattivi  di interazioni e processi, capaci di una evoluzione, in misura della quale abbiamo   rigenerato, attualizzandola, l’originaria nostra immagine – non siamo stati mai moderni post-moderni ' la rondine che non fa primavera '  né oggi con la tecnologia mobile, propositiva di una unità di base comunicativa, la quale, proprio in quella unità si fa memoria dell’origine.

continuo nel prossimo soliloquio
Franco Riccio


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