Appendice al precedente soliloquio
Guardiamoci negli occhi rispecchiandoci / non avversari né
antagonisti / ognuno dal proprio luogo
natio in piglio panoramico, tale
da sovrastare il geometrico frazionamento geografico
che ci ha reso, reciprocamente, stranieri
– anche oggi, nella simulazione di cittadini europei, lottizzati all’interno
del reticolo delle “cittadinanze” etniche e le cui cicatrici delle nostre
“estraneità” si attizzano nel rituale delle parate militari / guardiamoci con
l’intensità dell’animo, lasciando scivolare nella nostra pelle il segno impresso dalle ferite, prodotte
dal vantaggio personale / riflettiamo riflettendoci in disponibilità
comunicativa, sgravata da una logica
grammaticale di un sapere, il
quale ci ha reso portatori sani del virus
del primato
/memorizziamo l’immemore
dimenticanza di quel vagito senza timbro,
tramite il quale ciascuno di noi ha segnalato, nella diversità senza qualità, la sua convivenza
/ qualità, timbro anagrafico di una diversità paritetica, la quale avvolge
in sé l’illimitata sua varietà, che si trasforma in sperequazione sociale – e quel vagito, legame spontaneo di coabitazione,
si declina in vincolo sociale,
soggetto al deterioramento, nel quale, rivolgendomi ad Habermas , si fa prezzo / in quel vincolo possiamo rintracciare il male originario del suo stesso costituirsi tale: genealogia di un vincolo,
intessuto dall’ordito differenziante l’uomo
gerente il destino dei suoi simile (<Io, lo Stato, sono il popolo>
(Nietzsche) dall’uomo <appendice> (Adorno) dei suoi
deliberati
/male originario conformatosi a guisa di virus / in tale “foggia”, mi chiarisce Isabelle Stengers (Concetti nomadi), <l’origine stessa
viene propagata dal fenomeno di propagazione: ogni essere vivente infettato
diviene lui stesso centro di propagazione, ciascuno diviene dunque centro
potenziale di un nuovo processo, che non esaurisce la sua causa, ma la rigenera
nella misura in cui si produce>
Come non riflettere? Non è questo il momento dell’interrogarci seriamente? Rispecchiare in
noi il potenziale rigeneratore di quel virus
che noi stessi abbiamo fertilizzato
nel costruire la nostra esperienza mondana, imbrunendo gli stessi risvegli
primaverili? Quei risvegli non sono stati potenziati attraverso l’ingegno e le
lotte di liberazione da ogni oppressione? Un diradarsi dell’oscurità della
nostra esistenza, per loro virtù, non
ha dischiuso sia linee in ramificazione di orientamento nel suo accidentato passaggio sia l’idoneità a conquistare la democrazia?
Oggi, con le spalle al muro, ci
accorgiamo che la società, la nostra,
non gratuità provvidenziale, è malata!
piagnucolio, lamentele: un ritornello quotidiano a più voci, in unica tonalità,
l’espediente del momento dell’unità delle nostre diversità / mitiga le nostre
coscienze, inorridite dall’aggravante pesantezza
del rapporto tra di noi, macchiato
anche dal tradimento dei nostri fiduciari – e non ci interroghiamo? Il manifestarsi di tale
deprezzamento, mi ricorda Deleuze nelle Lezioni
su Kant, non è costituente il soggetto? ovvietà, il reo, legittima la condanna / ma il singolo, pur nella sua ingiustificabile, e quindi, penalizzabile,
manchevolezza, non è, come noi, integrato
nel tessuto costituente quel vincolo che manifesta il configurato storico della nostra società
e che riflette la consapevolezza che una cultura
di un popolo ha del suo momento storico?
In quel vincolo abbiamo proiettato tutte le nostre indeterminazioni e ritradotto,
nell’integrazione dell’interazione
tra individui in entità stabile,
resistente alle “perturbazioni”, la massimizzazione del nostro interesse
individuale e la ragione egoista della
sua trasmissione alle generazioni successive: <la società ha assunto…la malattia di tutti i singoli> (Adorno,
Minima moralia).
L’innesco di tale processo segna
la radice genealogica del <nucleo
logico> della cultura di noi occidentali, e in esso il tessuto
formativo in propagazione del come
pensiamo: il nostro virus / in
esso rinveniamo l’illuminato talento
di un realismo catturante l’innovativo,
in forza del quale abbiamo illuminato la
terra e dissolto i miti e sul
quale l’indifferibile nostra inventiva
poetica, nella varietà delle sue espressioni, ha sollevato dall’illuminante splendore la linea rossa di una liberazione, edificata sull’illibertà
e sulla miseria della moltitudini di
individui, ancora, oggi, nella conquistata e sudata democrazia, agganciati alla
linea verde del segno, conio di un vantaggio,
promesso al prezzo del voto.
Minosse, in metamorfosi, ci siamo
asserragliati in un labirinto, nei
cui meandri abbiamo recintato uno spazio di coabitazione, proiezione della
nostra immagine, intessendo circuiti
interattivi di interazioni e processi,
capaci di una evoluzione, in misura della quale abbiamo rigenerato, attualizzandola, l’originaria nostra immagine – non siamo
stati mai moderni né post-moderni ' la rondine che non fa primavera ' né oggi con la tecnologia
mobile, propositiva di una unità di base comunicativa, la quale, proprio in
quella unità si fa memoria dell’origine.
continuo nel prossimo soliloquio
Franco Riccio
Nessun commento:
Posta un commento