Abbiamo
bisogno di storia / oggi, in movente incalzante dall’ondeggiamento
incoativo attraverso il quale emergenze contraddittorie inviluppano
quel legame, in tonalità senza tono, che ci
identifica, fuori delle varie argomentazioni, abitatori
temporanei di una terra comunitaria, nell’articolazione
di un insieme, il quale, nel manifestare la sua organicità
operativa nel segno del rapsodico che avvolge in sé il fluire
incoativo di una esperienza individuale e collettiva che va
costruendosi, traluce una correlazione oggettiva difensiva
contro le variabili insorgenti negli equilibri raggiunti, cementando
la dipendenza di sempre del nostro esistere dall’insieme
dell’esistente, configurato all’interno dalla perenne questione
del rapporto tra pensiero e essere.
Ciò mi
induce a un riflettere puntato, come determinata condizione
preliminare, non sulla critica né sulla denuncia, ma
attraverso un risveglio di memoria intorno alla genealogia
della nostra civiltà, che ci qualifica uomini occidentali.
Un
risveglio indispensabile, per me, per comprendere
l’attuale nostra vicissitudine esistenziale, travagliata da una
crisi mondiale dagli esiti incerti e nella prospettiva di persistere
nello status di individuo amministrato da una formazione
politica, che si farà chiamare Stato (Nietzsche, Così parlò
Zarathustra), in quanto vincente; un conoscere, il quale è
un conoscermi, socializzandolo a un conoscersi; ciò
affinché possiamo imparare sempre meglio <a coltivare la storia a
scopo di vita>, lasciando <agli uomini sovrastorici
la loro nausea e la loro saggezza> (N. Considerazioni
inattuali, II) e a noi il compito di cercare in essa,
<attraverso i dettagli quel frammento di stregoneria ontologica
che ha presa sul reale> (Adorno, Dialettica negativa) e
rilevare in essi le cicatrici del nostro legame sociale.
<Stregoneria
ontologica>, oggi, rilevabile, con micologica
investigazione, secondo il suggerimento di Adorno, in un prendere
forma una intelligenza artificiale, in virtuale ondeggiamento
costruttivo, attraverso il quale rende dicibile l’indicibilità
del legame sociale, dispiegandosi e rispiegandosi in
essa, per riassettarla secondo il suo timbro.
Retaggio
culturale in attualità che rifinisce una mentalità,
genealogicamente affermatasi, in corrispondenza all’emergere di
fattori innovativi esterni e ad esigenze interne ad un legame
sociale in sincope, geograficamente circoscritto. Un
rivolgimento totale di un agire pensante, - e qui è
necessario riflettere in sospensione ideologica e scientifica
- connaturale alla natura pensante di ogni individuo di produrre
pensieri, fuori da qualsiasi ordine stabilito; ordine, il quale è
genealogicamente socio-culturale. Una punteggiatura per capire e
per capirci: in questo campo si misura la cessazione di
ogni conflittualità armata o dialettica / fuori da questo campo è
il terreno di quella reificazione, urlata e tacitata dal punto
di vista di colui che giudica da Adorno, prodotta dall’uomo
sull’uomo / in quel campo sono da portare i vari
saperi, le varie istituzioni, le forme storiche di
pensiero e di razionalità, le erranze del linguaggio, le
diversità di religioni, non alla loro autosufficienza
/ il responsabile è l’uomo: e qui il riflettere riflettendoci
si rende indispensabile: ci coinvolge, e ci coinvolge proprio nel
processo d’interazione con il reale processo della
vita della società, mediante il quale apprendiamo la cultura,
acquistiamo i ruoli, costruiamo il nostro sé, e si formano e
si trasformano i modelli, attraverso i quali si innesta un
relativo processo di apprendimento, mediante il quale li
incorporiamo psicologicamente, determinando in noi un comportamento o
conforme o deviante (cfr. A.K. Cohen, Controllo sociale e
comportamento deviante). / processo d’interazione da
connaturale alla nostra singolarità, la quale è individuale
in quanto sociale ed è tale in quanto individuale, perché
abitanti temporanei nello spazio che configura la
nostra appartenenza, per un processo selettivo e di equilibrio di
una organizzazione umana, culturalmente normativa,
diventiamo soggetti normativi: uomo, sia filosofo,
scienziato, statista, progettista informatico, teologo, senza
qualità.
Ecco perché
abbiamo bisogno di storia / una storia, non per la vita
(Nietzsche), ma per un’assunzione di responsabilità, non
delegabile, del diritto di ogni uomo a vivere la sua
quotidianità in quella superficie comunitaria che è la terra,
attraverso quel legame che unifica le diversità senza annullarle.
Storia, non
<pensata come pura scienza e divenuta sovrana, sarebbe una specie
di chiusura e liquidazione> (Nietzsche, Considerazioni
inattuali II) del legame che ci identifica per quel che
siamo per natura, e non per contratto né per quello che
siamo sempre stati: individui statalizzati sin dalla nascita:
singolarità amalgamante in sé comunicatività nel vagito, -
voce senza timbro che, in osmosi atonale ci omogenea nella
diversità incomparabile / nel timbro, tonalità di una
organizzazione associativa umana, prodotta, nelle
varie configurazioni stagionali, dall’esito conflittuale dalle
formazioni in competizione, la malattia, la quale più che logorare
il legame (Habermas), ne trasmuta la spontaneità in vincolo
formale, in un aggiornamento di un rituale consolidato,
fissato in ogni momento della storia e che <impone delle
obbligazioni e dei diritti; costituisce delle procedure accurate>
(M. Foucault, Microfisica del potere) - il virus, che,
in propagazione, infetta ogni individuo, il
quale si fa portatore attivo, sia esso conservatore,
progressista, rivoluzionario, senza qualità.
<Ciò
che perdura non è un quantum di sofferenza, ma il suo
progresso infernale>, scrive Adorno in Minima moralia, e dà
spazio al mio rifletterla / intensificazione di un “indurimento”
intensivo di un criterio normativo coniato sul timbro del
segno che rende tangibile la trasmutazione di un pensare
soggettivo in un pensare oggettivo e oggettivante,
valorizzando, in conseguenza una forma di comportamento adatto
alla società in cui si manifesta (suggerirei la lettura del saggio
di J. Gervet, Comportamento. Una realtà in
cerca di concetto, in Concetti nomadi, citato, per gli
spunti di riflessione che suscita).
Svilupperò
in seguito, almeno lo spero, tale riflessione. Ora mi è utile per un
quadro sulla situazione odierna, la quale mi afferma,
nell’accettazione della novità emergente, il bisogno di non
dimenticare la nostra storia.
Oggi, siamo
inviluppati, così penso, nei meandri labirintici di un anonimato di
quel sempre amministratore dei bisogni incentivati
degli individui e del loro talento – il capitalismo senza
volto – e <l’esplosione planetaria della tecnologia mobile,
la cui conseguenza, sul piano socio-politico, sarebbe la
mobilizzazione della tecnologia> (F. Duque, L’età è
mobile, qual cella al vento, in “Anterem”): New
Onto(techon)logy.
inquietanti
svolte, incisive su quel legame sociale che non siamo stati in
grado, in ogni momento della nostra storia, costruire.
Proprio,
per quel che scrive Duque, New Onto(techon)logy da
prestazione, - efficiente per l’uscita di ogni uomo,
al di là di ogni identità (ruolo, sesso, fede…), dalla
funzione assegnata dall’equilibrio di una organizzazione umana,
di agente pensante delegante, - in <l’Unità di
comunicazione di base (ontologico-categoriale) attraverso la e per
mezzo della proliferazione di procedure in permanente modifica e
alterazione (LogicflowSystems)>, l’inguaribilità della
malattia sociale.
Franco
Riccio
Mi chiedo: sono proprio dinanzi a un soliloquio?
RispondiEliminaSe a simile termine si assegna il significato di monologo fine a se stesso, la risposta è no: se, invece, gli si attribuisce il valore di proposta di dialogo, la risposta è positiva.
Il suo intenso e originale dire rivela un’assidua volontà o, meglio, un vivido desiderio di “esternazione”.
A mio avviso, la sua scrittura trova l’impulso a proseguire proprio nella lucida consapevolezza dei problemi concernenti l’uso della lingua.
Talvolta non siamo del tutto soddisfatti dalle nostre parole, tuttavia tale insoddisfazione non deve indurci a desistere ma a migliorare: questo mi sembra essere il “tenace” argomento dei suoi scritti.
“Bisogna continuare e io continuo” diceva Beckett (cito a memoria) e, secondo me, i suoi “soliloqui” rappresentano proprio quel “bisogna” vissuto non quale dovere, bensì, ripeto, quale desiderio.
Faccio parte della redazione di una rivista (“Anterem”) che ritiene non corretto segnare rigidi confini tra poesia e filosofia: credo che i suoi testi manifestino tale linea di pensiero in maniera non soltanto teorica ma anche esistenziale.
La sua scrittura è vita perché è circostanza di vita e di scrittura.
Pubblicato da Concetta Riccio
per conto di Marco Furia